Da ormai più di tre settimane, l’utente di Twitter può facilmente notare come, in cima alle “tendenze“, siano stabili hashtag come “#StopWar“, “#NoToWar” e “#StopPutin”. Chi invece all’uccellino preferisce Instagram o Facebook noterà il proliferare di foto profilo con la bandiera dell’Ucraina. L’intero mondo dei social sembra tenere molto a esprimere la propria vicinanza al popolo ucraino, ed è difficile non paragonare l’evento a centinaia di spinte simili degli ultimi anni, più o meno condivise: una delle più note è stata l’ondata di “#JeSuisCharlie”, accompagnata da bandiere francesi, che ha investito ogni piattaforma in seguito all’attentato terroristico ai danni della rivista «Charlie Hebdo» nel 2015.
Non solo fake news
I social sono a tutti gli effetti un luogo non fisico, all’interno del quale chiunque pubblica il proprio pensiero, o propri ricordi, o qualsiasi genere di contenuto. La maggior parte dei fruitori di questi servizi (fruitori ma anche fornitori, visto che il servizio sono proprio i contenuti che vi vengono pubblicati) ama “postare” proprie foto, o immagini di un posto visitato di recente, oppure ancora il proprio pensiero su una determinata vicenda.
Essendo composti da miliardi di persone, che in un dato momento vi accedono e interagiscono coi contenuti presenti sulla piattaforma o ve ne caricano di nuovi, va da sé che si tratti di tutt’altro che di un luogo chiuso, isolato da ciò che è il mondo. Se, per fare un esempio un po’ banale, un politico piuttosto noto fa una gaffe pubblica o un calciatore assume un’espressione buffa durante una partita, bastano poche ore perché inizino a comparire i primi meme sull’argomento.
È anche per questa loro natura strettamente legata al “mondo reale” che i social network sono spesso fonti di fake news e in generale di pessima informazione: non serve necessariamente seguire fonti di informazione più o meno accreditate, ma anche un semplice meme o una storia pubblicata da un amico possono darci informazioni sugli eventi più recenti. Informazioni spesso parziali o completamente male interpretate o talvolta volutamente manipolate. Il tema delle fake news è ormai centrale all’interno del dibattito pubblico (noi lo abbiamo approfondito qui), ma esistono diversi altri temi meritevoli di considerazione: un esempio è proprio quello della “partecipazione sociale“.
Caccia al like
Quella che investe i social ogni volta che un grosso fatto di attualità accade è una vera e propria tempesta mediatica. Iniziative come i succitati hashtag (ma anche molti, troppi altri per essere qui citati tutti) o le modifiche alle proprie foto profilo sembrano essere il modo preferito dagli utenti di questi servizi per dichiarare solidarietà alle vittime di qualche catastrofe o per dimostrare il proprio sostegno a una determinata iniziativa o lotta. Ed è così che, molto spesso, parte la “caccia alla visibilità“: influencer, aziende e moltissimi comuni utenti si prodigano nello sforzo di mostrarsi più solidali o aderenti alla causa in questione di chiunque altro, col sostanziale scopo (talvolta dichiarato, solitamente no) di guadagnarne visibilità. Il dibattito social a tal riguardo, diviso nelle fazioni “solidarista” e “cinica” (la cui obiezione fondamentale è l’inutilità di tali iniziative), secondo molti non ha gran senso di esistere: viene chiesto se sia di per sé sterile e figlio della polarizzazione che caratterizza ogni sorta di “sezione commenti” disponibile.
Restano però sensate considerazioni da fare a riguardo. A chi non è capitato, nel contesto di una tragedia, di trovare strumentalizzazioni davvero fuori luogo pubblicate sui social media? Pur sorvolando su quelle di carattere politico, che sono ormai stabilmente considerate operazioni di raccolta di consensi, il fatto è che il fenomeno è frequente anche nel “piccolo”, quando la posta in gioco sarebbe anche ben meno valevole come movente. Possiamo ammetterlo con onestà: ancor più che il consenso politico, viene spesso da pensare che video, immagini e hashtag pubblicati ad hoc tanto per guadagnarne in visibilità finiscano per essere spettacoli piuttosto sterili, per non dire tristi. Se il lettore ha la fortuna di non conoscere nessuno che si dia a questo genere di “campagne”, sarà sufficiente fare una qualsiasi ricerca su Google simile a “trend hashtag #StopWar” per trovarsi davanti diversi articoli che suggeriscono i cancelletti relativi alla crisi in Ucraina col fine di aumentare i followers o avere più like.
Specchio specchio…
Naturalmente, non è che chiunque voglia dimostrare solidarietà via social vada automaticamente additato come “approfittatore”. È innanzitutto buona norma ricordarsi che, anche se i contenuti diventano di fatto di dominio pubblico, ognuno può sfruttare le piattaforme social come gli pare e piace, e non deve rendere conto a nessuno di ciò che ci carica. Non solo: tra chi aderisce a queste iniziative ci sono tantissime persone che credono fermamente in ciò che stanno facendo e che vorrebbero solo, nel loro piccolo, dimostrare della solidarietà. Ovviamente nessun utente medio di Instagram può fare granché per fermare la guerra in Ucraina e dunque percepisce il caricare un’immagine a riguardo come “sempre meglio” che non far niente.
Resta da analizzare seriamente (come una parte di comunità accademica sta già facendo) il rapporto causale che potrebbe esistere tra il rispettabile intento e l’arcinota gratificazione derivante dalle interazioni coi nostri contenuti. È ormai cosa nota come ogni notifica relativa a un “Mi piace” stimoli l’area del cervello che regola il senso di gratificazione, generando una vera e propria dipendenza (similmente a quanto accade con diversi tipi di droghe o il cioccolato o il sesso). Questo fenomeno potrebbe spiegare, seppur in termini semplicistici, il perché della “mobilitazione generale” (per restare nell’infelice campo semantico) che segue ogni evento ritenuto rilevante: se questo coinvolge molte persone, è più semplice che un post a esso relativo abbia più risonanza. E se i social sono, a voler parafrasare l’adagio, lo “specchio dell’anima“… La partecipazione diventa quasi una questione di ricatto morale, nel caso delle dipendenze più gravi.
#Attivismo
Sia chiaro: quello del nonno “criticone” verso le nuove tecnologie è, più che una vera e propria retorica, un cliché che fa sorridere dalla notte dei tempi. Resta, soprattutto per questo, da scindere nettamente con una invece doverosa serie di riflessioni circa gli effetti puntuali dei diversi usi che si fa di tali tecnologie. Il fenomeno di cui si sta parlando, ovvero quella traslazione del dibattito pubblico e di sofferenze più o meno collettive (anche se spesso molto più marginalizzate e solo apparentemente collettivizzate dal fenomeno stesso) in un luogo altro, è riconosciuto e studiato. Tanto da avere un nome specifico, nella comunità accademico-scientifica che se ne occupa: si chiama “hashtag activism“. Nome quanto mai azzeccato, se si considera come ciò che viene effettivamente traslato è proprio il concetto di “attivismo”.
Va ribadito come il fenomeno di per sé sia neutro, come sempre lo è la tecnica. Solo l’uso che se ne fa può influenzare in maniere che i singoli possono ritenere positive o negative. Ci sono fior di esempi tanto di suoi utilizzi in positivo (come la sensibilizzazione più o meno generalizzata intorno ai temi quali la parità di genere o i diritti umani e civili, fortemente favoriti da queste “campagne social”) quanto in negativo (si vedano la persecuzione di minoranze islamiche in Myanmar del 2016 o il più recente attacco al Campidoglio americano nel 2021). A prescindere dall’uso che se ne fa, è chiaro a tutti che il fenomeno non sia marginale: la capacità di mobilitazione che offre la cassa di risonanza sostanzialmente illimitata dei social ne fanno uno strumento che, in termini qualitativi e quantitativi, supera di gran lunga le capacità delle campagne propagandistiche caratteristiche dei totalitarismi del XX secolo. L’esposizione mediatica a cui è inevitabilmente sottoposta una ben riuscita campagna social ha delle potenzialità di influenza sull’opinione pubblica praticamente inimmaginabili.
La legge di Čechov
Uno dei più noti drammaturghi russi di fine Ottocento (e forse di sempre), Anton Čechov, amava seguire una regola incrollabile nelle sue tragedie. Oggi nell’ambiente teatrale tutti conoscono la “legge di Čechov”: se una pistola compare sulla scena nel primo atto, questa sparerà entro il terzo. A volerla forzare, questa legge è ben applicabile alla storia del sapere scientifico: ogni volta che una pistola, bomba o strumento qualsiasi è stato creato, questo è stato usato almeno una volta, prima o poi. E se uno strumento ha un possibile utilizzo che qualcuno può intuire, prima o poi qualcuno lo sfrutterà in tal maniera, nella maggior parte dei casi. I social, come abbiamo accennato (e come il lettore potrà approfondire in un interessante articolo citato in bibliografia), sono uno strumento davvero potente, con potenzialità inimmaginabili. Tanto bene e tanto male possono essere perpetrati tramite essi, e tanto bene e tanto male ne è stato fatto.
Quello che ci insegna la grossolana applicazione fatta della legge di Čechov non è tanto che sia necessario rifiutare in toto uno strumento potenzialmente pericoloso. Come si è appena accennato, moltissime cose buone possono essere fatte tramite i social, e queste non dovrebbero essere oscurate a priori da rischi potenziali. Quello che dovrà piuttosto essere un dovere degli attuali (e soprattutto futuri) utenti social sarà semplicemente riflettere sull’uso che ogni giorno si decide di farne. Solo il nostro comportamento, e le regolamentazioni che andrebbero imposte da chi ne ha il potere, possono far sì che questo strumento venga sfruttato nel modo migliore possibile.
FONTI
Manash Pratim Goswami, Social Media and Hashtag Activism, Kanishka Publisher, 2018
CREDITI