Una delle domande più ricorrenti nella storia della filosofia e della teologia è quale sia, se esiste, il principio differenziante tale da separare l’uomo dagli altri esseri viventi, e in particolare dagli animali. La risposta ha assunto forme varie a seconda dell’ambito disciplinare e/o culturale in cui una tale riflessione ha preso piede: l’anima o spirito, per la religione cristiana, la ragione, per la cultura medievale, il DNA e le nostre facoltà biologiche per la scienza, per fare solo alcuni esempi.
In un TED Talk del giugno del 2015, lo storico e filosofo Yuval Noah Harari, non rinunciando a quella prosopopea enfatica e didascalica che si confà a tale contesto, offre una risposta particolarmente suggestiva. A distinguere gli uomini dagli animali sarebbe l’immaginazione, anzi, la capacità di credere in una finzione, in qualcosa di immaginato. Il termine che però descrive meglio di ogni altro una tale facoltà è “astrazione”: la formulazione di concetti astratti, secondo Harari, sarebbe ciò che consente all’uomo di “cooperare in largo numero (cioè in comunità numerose, ndr) e in modo flessibile e non rigido (cioè invertendo i ruoli, ndr)”.
La dislocazione
Insomma, l’uomo riuscirebbe a governare il mondo perché in grado di ideare concetti, fra cui quelli di stato, nazione, religione, cultura, e in un secondo momento di crederci. Una tale visione delle cose chiama in causa una serie di riflessioni che attingono al campo della linguistica. Come afferma Harari, l’uomo è l’unico essere vivente il cui linguaggio naturale contenga dei riferimenti a entità non materiali, cioè intangibili, inattingibili mediante i cinque sensi. Una tale caratteristica è individuata dai linguisti con l’espressione “dislocazione”.
La dislocazione è la facoltà dell’uomo di riferirsi, usando il linguaggio, a ciò che non è disponibile nel momento dell’enunciazione: questa indisponibilità potrebbe essere cronologica (l’oggetto/evento si colloca nel passato o nel futuro); spaziale (l’oggetto/evento si trova lontano dal soggetto parlante o scrivente); fattuale (l’oggetto/evento non esiste concretamente, è un parto d’immaginazione). Gli animali sono in grado solamente di riferirsi a entità disponibili, presenti cioè entro il contesto enunciativo, compresi nella portata della loro vista, del loro tatto, del loro udito, del loro olfatto.
Ricchezza e complessità
Ci sono altre due qualità che rendono quel sistema semiotico che è il linguaggio umano impareggiabile nel confronto con i linguaggi utilizzati dagli animali. Si tratta della ricchezza e della complessità. La ricchezza del linguaggio umano è il frutto di caratteristiche che tecnicamente sono chiamate “produttività” e “ricorsività”.
La produttività
Il linguaggio umano è infinitamente (o quasi infinitamente) produttivo. Questo vuol dire in sostanza due cose. La prima è che i segni, cioè i grafemi di cui dispone un utente, possono essere impiegati per formare un altissimo numero di combinazioni, potenzialmente infinito. La seconda è che ogni lessico, cioè l’insieme delle parole di una lingua, è un sistema aperto costituito da unità a referenza variabile.
Che cosa sia un sistema aperto è facile a intendersi: si tratta di un inventario sempre disponibile a nuovi ingressi, a nuove parole (prestiti, calchi, neologismi). La referenza variabile, invece, è l’opposto della referenza fissa, caratteristica dei linguaggi non umani: ogni parola può significare, e tendenzialmente significa, più di una “cosa”, cioè ogni parola è potenzialmente polisemica.
Se io dico “Massimo è una lucertola”, non intendo dire che ho chiamato un rettile col nome “Massimo”, ma sto usando la parola “lucertola” in un significato differente da quello letterale: probabilmente vorrò intendere che a questo Massimo piace prendere il sole per diverse ore della giornata, come di solito fanno le lucertole. Ciò vuol dire che alla parola “lucertola” sono associati più significati: quello di “rettile dell’ordine degli Squamata” e quello di “essere umano che ama abbronzarsi”. Il secondo dei due significati in questione è il frutto di una metafora, una particolare figura retorica.
La ricorsività
La ricorsività, invece, è la facoltà di formulare enunciati sempre nuovi e soprattutto molto lunghi coordinando e subordinando. Ogni parlante avrebbe la capacità di produrre enunciati infiniti: se non lo fa è per non compromettere l’efficacia dell’atto di comunicazione.
La trasmissione culturale
La complessità del linguaggio umano è determinata da caratteristiche come la trasmissione culturale e la discretezza. La trasmissione culturale è quella peculiarità del linguaggio umano di non esaurirsi nella forma che un genitore ha trasmesso al figlio: il linguaggio dei cani non si concretizza in lingue diverse, quello degli uomini sì. Non solo: a ognuno di noi è data, geneticamente, la possibilità di apprendere lingue diverse rispetto a quella dei propri genitori, e addirittura non è inverosimile che un figlio dimentichi completamente quest’ultima.
La discretezza
La discretezza è una caratteristica straordinariamente sorprendente. Consiste nella capacità dell’uomo di mettere dei paletti fra realtà linguistiche diverse, di scegliere a quali entità attribuire un significato e a quali non attribuirne alcuno.
Le api, quando vogliono comunicare fra loro circa la distanza del cibo, usano delle vibrazioni di diversa entità: a una modesta vibrazione corrisponde una modesta distanza, a un’intensa vibrazione una distanza cospicua, e così via. Soprattutto, ogni possibile grado o entità della vibrazione è saliente, cioè può acquisire un significato. Se la vibrazione x corrisponde alla distanza x, la vibrazione x-0,1 corrisponderà alla distanza x-0,1; e lo stesso per x-0,01, x-0,001, ecc. Una lingua, invece, non attribuisce un significato a ogni minima entità che il parlante è in grado di produrre: l’italiano, per esempio, assegna un valore preciso al suono /a/, un altro al suono /e/, ma non ne assegna nessuno in particolare al suono /ə/ (schwa).
Dove sta in tutto questo la nozione di complessità? Nel fatto che non tutte le lingue funzionano come l’italiano, anzi ognuna è diversa. Per esempio, il turco assegna a /ə/ un valore specifico, particolare, diverso da quello di tutti gli altri fonemi. Ma la stessa cosa si può dire, oltre che per i suoni, anche per le parole: il tedesco gehen vuol dire “andare a piedi”, mentre fahren vuol dire “andare con un mezzo”. Come si coglie già da questa approssimativa traduzione, l’italiano non dispone di una specifica parola per indicare l’andare con un mezzo: la parola “andare” è sufficiente per esprimere qualsiasi tipo di percorrenza, di movimento, con o senza un mezzo. Questo significa che l’italiano sceglie di non attribuire un valore singolare, peculiare, una salienza all’andare con un mezzo, a differenza del tedesco. Una tale complessità non produce l’incomunicabilità tra un italiano e un tedesco, tutt’altro, stimola l’interesse reciproco e allarga le prospettive del pensiero individuale; e potrebbe addirittura, se teorie come quella di Sapir e Whorf fossero confermate, influenzarne e differenziarne il modo di pensare, la “forma mentis“.
Il potere delle parole
Il nostro linguaggio è ricco, complesso, e ci consente di elaborare concetti astratti. Quello degli animali è molto meno ricco, molto meno complesso, e permette di riferirsi solo a oggetti concreti. Queste differenze spiegano in parte il nostro ruolo di “dominatori” dell’ecosistema terrestre, il ruolo egemonico della specie Homo Sapiens, l’assunzione di una primazia su tutte le altre specie viventi che popolano il pianeta. Insomma, quando si dice che “le parole sono armi”, o che “hanno un peso”, si usano sì delle metafore, ma non si va molto lontani dalla verità.
FONTI:
G. Lakoff, M. Johnson, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, 2005.
G. Berruto, M. Cerruti, La linguistica. Un corso introduttivo, Utet, 2017