Forse non tutti lo sapranno, ma lo scorso ottobre è stato aperto l’Expo di Dubai 2020 (rimandato per le ovvie ragioni pandemiche). L’evento, che si concluderà il prossimo 31 marzo, vede la partecipazione di 192 nazioni, con un flusso stimato di venticinque milioni di visitatori. Il tema dell’esposizione è “Connecting Minds, Creating the Future” (“Connettere le Menti, Creare il Futuro”) ma, come spesso è accaduto nella storia dell’evento globale più noto, dietro agli slogan si celano numerose polemiche.
Quale Futuro?
Per comprendere al meglio il retroscena culturale non si può prescindere da alcuni dati fondamentali. Lo slogan non è stato scelto solo in virtù del suo “bel suono”: il nome in arabo di Dubai, infatti, è al-Waṣl, che tradotto significa proprio “il collegamento“. Gli organizzatori spiegano la scelta del nome sostenendo che “la città riflette oggi molto bene il suo significato: collegamento, ponte tra Oriente e Occidente”. Insomma, il “futuro” a cui fa esplicito riferimento il tema sarebbe un futuro di interconnessione tra due mondi, in mezzo ai quali si porrebbero la città e gli Emirati Arabi Uniti (di cui Dubai è la capitale).
Viene però da interrogarsi circa queste aspirazioni di Dubai. Questi dubbi, posti tendenziosamente soprattutto da parti politiche occidentali che fanno di una retorica islamofoba (più o meno esplicita) il loro principale strumento comunicativo, sono in realtà legittimi, almeno in parte. A prescindere dalle minori polemiche “nostrane”, esistono diversi punti critici che sono stati al centro di discussioni ben più universali.
La fama degli UAE (“United Arabic Emirates“) di certo non assiste: una monarchia semi-costituzionale, dal carattere sostanzialmente teocratico, come culturalmente previsto dalla maggior parte dei Paesi mediorientali. Lasciando da parte critiche di parte e divergenze sulle visioni politico-ideologiche, si eviterà qui di trattare anche la questione legata al ruolo sociale della donna: troppo semplice, per gli occidentali, criticare etichette culturali tanto differenti.
Diritti umani, civili e sociali
Ciò detto, il rispetto di culture tanto differenti non preclude affatto critiche verso altri temi. In particolare preoccupa la situazione relativa al rispetto dei diritti umani, i cui difensori denunciano da anni svariati abusi da parte dello Stato. In origine, ci si basava principalmente su un articolo del codice penale, precisamente l’articolo 176, che proibiva severamente “l’insulto ai danni di esponenti politici, istituzioni e bandiera”. Di fatto, nelle sue applicazioni, l’articolo è stato per lungo tempo uno strumento repressivo nei confronti di oppositori politici e della società civile. La svolta avviene però nel 2014, con l’introduzione di nuove e più severe leggi antiterrorismo, che prontamente classificano come “terroristi” “chiunque diffonda terrore o danneggi il pubblico o capi di Stato o funzionari di governo o cerca di destabilizzare l’ordine della società”.
Grazie a questa norma, anche un post sui social media può costituire reato, se viola certi standard. Sono diversi i casi in cui attivisti per i diritti umani hanno subìto trattamenti quantomeno sospetti: si prenda il caso di Omran Ali al-Harithi, condannato nel 2012 a sette anni (nel grande caso denominato “UAE-94“) e ancora oggi in carcere per “necessità di riabilitazione”. Molti colleghi denunciano maltrattamenti e torture che avrebbe subìto in carcere, anche se è difficile verificare tali accuse. E chi denuncia spesso rischia grosso: è il caso di Ahmed Mansoor, condannato nel 2018 a dieci anni di carcere per alcuni post polemici contro i trattamenti subìti da alcuni colleghi in carcere. Famiglia e amici sostengono che Mansoor sia tenuto costantemente in una cella d’isolamento, con appena tre ore d’aria al mese e senza un letto o nulla da leggere.
L’EXPO oggi
Simili questioni, talvolta sollevate nei dibattiti internazionali, non sembrano aver scongiurato l’ampia partecipazione all’ultima edizione dell’esposizione universale. Anche l’Italia ha aderito, ritenendola “un palcoscenico unico per visibilità, in un mondo che esprimerà nei prossimi anni importantissime opportunità di investimento”. L’osservazione (necessaria) va orientata proprio su queste parole, pronunciate dal Ministro per gli Affari Regionali Mariastella Gelmini. Sì, perché alla fine è su questo che si incentra l’Expo, già da tempo: opportunità d’investimento, visibilità internazionale. Creare reti di investimento internazionali. Il che, di per sé, non sarebbe necessariamente negativo. Il problema, semmai, è che sull’altare di questi nobili scopi si sacrifichi ogni altro valore.
Quando, nel 2015, gli attivisti si impegnarono nel denunciare scandali e corruzioni dietro alla gestione dell’edizione italiana degli Expo, nacque una vera e propria campagna mediatica a loro ostile. Non solo le dichiarazioni apertamente avverse da parte delle massime cariche dello Stato, ma anche una degenerazione violenta delle proteste (ben poco in linea coi messaggi delle stesse) che portarono a una vera caccia alle streghe. Oggi da Milano ci si è spostati a Dubai, e c’è il rischio che molte cose vengano taciute, anche considerando i faraonici investimenti degli UAE in diversi Paesi stranieri (prima fra tutte l’Inghilterra, ma l’Italia non è esclusa) che portano diversi governi ad avere difficoltà a sollevare certi temi.
L’Expo ieri
Le criticità etiche celate dietro l’ottimismo che circonda l’esposizione, d’altro canto, non sono fenomeno nuovo. Sin dalle sue prime edizioni, l’Esposizione Universale si è posta come alta espressione del progresso umano nei suoi valori. Ottimo slogan, ma terribile applicazione, perché la prima edizione si è tenuta a Londra, nel 1851, e il più alto ideale umano era rappresentato dal Positivismo: progresso tecnologico senza freni come garanzia di benessere illimitato.
Poche decine di anni bastarono a smontare il mito e le illusioni, ma non la mentalità incarnata da Expo. Non solo le prime edizioni erano interamente dedicate all’industria, ma anche oggi, com’è chiaro, l’obiettivo è di attirare i riflettori sul progresso economico e tecnologico, spesso ignorando contraddizioni e malefatte. A partire dalle dubbie cifre di operai che avrebbero perso la vita nei lavori per l’esposizione (almeno cinque, secondo le stime ufficiali, che la dichiarano una “cifra globalmente nella norma”).
Insomma, la stessa storia di Expo racconta già tutto ciò che c’é da sapere. Racconta la risposta a una domanda, la quale a ben vedere è utile porsi oggi più che mai: “Cosa vuol dire partecipare a Expo, oggi?” Vuol dire la stessa cosa di sempre: partecipare a una grande e meravigliosa manifestazione del progresso umano, con tutti i suoi lati innegabilmente affascinanti. E vuol dire anche decidere di chiudere un occhio su tutti i “sacrifici” che vengono fatti (o, più spesso, imposti) per rendere possibile questa manifestazione. La riflessione è mancata (per noi abitanti della Penisola) nell’occasione più ghiotta, quando le contraddizioni le abbiamo vissute in casa. Poco male, purché si sfrutti questa nuova occasione, ognuna delle quali, come insegna il proverbio, resta buona.
FONTI
Amnesty International (per approfondire lo sport washing e il caso di Ahmed Mansoor)