Da sempre la primavera involve un sentimento di rinascita, di nuove possibilità e di nuovi inizi: dopo i freddi giorni invernali la natura si risveglia, sbocciano i fiori e compaiono le rondini, portando un messaggio di speranza e di fiducia.
Il 21 marzo, primo giorno di primavera, si celebra la Giornata mondiale della poesia, che sposa perfettamente l’ideale di bellezza della nuova stagione. D’altronde, come diceva Todorov, la bellezza salverà il mondo.
La Giornata mondiale della poesia è stata istituita dalla XXX Sessione della Conferenza generale dell’Unesco nel 1999 ed è stata celebrata per la prima volta il 21 marzo dell’anno successivo. Il primo giorno di primavera è stato scelto per sottolineare l’affinità della bellezza e dell’espressione poetica a un messaggio di pace e di scambio interculturale.
Poesia e nascita
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Con questi celebri versi la poetessa milanese Alda Merini, nata il 21 marzo 1931, sancisce il legame tra poesia e nascita – o rinascita – diventando il simbolo di questa giornata: dopotutto, Alda Merini, orgoglio milanese, rimane una delle voci più affascinanti e amate del Novecento.
La follia è la miccia che accende la poesia e il suo scopo è aprire le zolle e scatenar tempesta, ossia creare scompiglio, smuovere le coscienze per far emergere qualcosa di nascosto in chi la legge e in chi la scrive.
L’arte di far entrare il mare in un bicchiere
Parlare di poesia in pochi caratteri è senza dubbio limitante e il rischio di cadere nella superficialità è altissimo. Mai vi fu un genere letterario più incline a manipolare la parole a presentarsi in modo così poliedrico: dall’epica al sonetto, dalle terzine dantesche ai calligrammi di Apollinaire, la poesia assume forme diverse a seconda della penna di chi scrive. Non è un caso, forse, che Calvino abbia definito la poesia l’arte di far entrare il mare in un bicchiere; la poesia consiste nel sintetizzare in poche parole diversi significati, ed è come l’acqua, si plasma in base a ciò che la contiene, è sfuggente e restia a essere ingabbiata.
Altrettanto riduttivo e superficiale sarebbe cercare di proporre una sintesi della storia della poesia – per limitarsi a quella occidentale – e percorrere per punti i grandi nomi che hanno costellato gli scaffali delle biblioteche; dopotutto, fiumi di inchiostro sono stati versati solo per esaminare il significato di un parola scelta da Dante nei suoi versi. Dunque è forse più opportuno proporre la lettura di alcuni poeti che, tramite i loro versi, hanno riflettuto, con un procedimento che si potrebbe definire metaletterario, sulla poesia stessa, recando alla letteratura delle nuove sfumature.
Walt Whitman, Il mio lascito
L’uomo d’affari, il grande accumulatore,
dopo anni di assiduo lavoro controlla i risultati, preparandosi
per l’ultimo viaggio,
affida case e terreni ai suoi figli, lascia beni, merci, fondi,
per una scuola o un ospedale,
lascia denaro ad alcuni camerati per comprare doni, ricordi
quali gemme e oro.
Ma io, al contrario, ripensando alla mia vita, facendone il consuntivo,
non avendo nulla da mostrare e lasciare dopo questi anni oziosi,
né case, né terre, né lasciti di gemme o d’oro per i miei amici,
null’altro, se non alcuni ricordi di guerra per voi, e in vostro onore,
e pochi ricordi di accampamenti e di soldati, con il mio amore,
io riunisco e lascio in questo fascio di canti.
Considerato il padre della letteratura americana, Walt Whitman (West Hills, 31 maggio 1819 – Camden, 26 marzo 1892) fu portavoce di quello che poi venne definito sogno americano, per aver cantato l’ideale romantico di libertà e democrazia a cui gli Stati Uniti facevano riferimento. La libertà è segno caratteristico anche del suo metro: Whitman è ritenuto da molti un po’ l’inventore del verso libero e il primo ad averlo usato comunemente. La sua opera più celebre, considerato un classico della letteratura, è Foglie d’erba, raccolta pubblicata nel 1855 e che comprese poi, a partire dal 1867, il componimento O capitano! Mio capitano!, reso iconico da L’attimo fuggente, film del 1989 diretto dal Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Nei versi di Il mio lascito, Walt Whitman si chiede cosa possa lasciare in eredità dopo aver vissuto una vita priva di beni materiali: la risposta è senza dubbio la poesia, i suoi scritti, che lui chiama fascio di canti. Un lascito inconsueto, ma certo non meno prezioso di gemme e oro.
Charles Baudelaire, L’albatro
Spesso, per divertirsi, i marinai
Prendono degli albatri, grandi uccelli dei mari,
Che seguono, pigri compagni di viaggio,
Le navi in volo sugli abissi amari.
L’hanno appena depositato sulla tolda [il ponte della nave],
E già il re dell’azzurro, maldestro e impacciato,
Strascina pietosamente accanto a sé
Le grandi ali bianchi come se fossero remi.
Com’è sinistro e fiacco il viaggiatore alato!
Lui, poc’anzi così bello, com’è comico e brutto!
Uno gli mette la pipa sotto il becco,
Un altro, zoppicando, imita lo storpio che volava!
Il Poeta è come lui, principe delle nubi
Che sta con l’uragano e ride degli arcieri;
Esule in terra fra le grida di scherno,
Le sue ali da gigante gli impediscono di camminare.
Uno dei componimenti più noti di Charles Baudelaire (Parigi, 9 aprile 1821 – Parigi, 31 agosto 1867) è L’albatro, poesia contenuta all’interno di Spleen e Ideale, la prima delle sei sezioni che costituiscono I fiori del male. L’albatro è un’allegoria del poeta: è il principe delle nubi, ossia protagonista di un mondo più alto, distante dalla terra, dove è invece deriso e tormentato. L’albatro infatti è elegante e maestoso finché è in volo, ma nel momento in cui tocca il suolo diventa goffo e sgraziato; il portamento dell’albatro è allegoria di quello del poeta, protagonista di spicco nella dimensione della poesia e della bellezza, ma incapace di integrarsi appieno con le persone comuni. Baudelaire denuncia la limitatezza della società a lui contemporanea, che non riconosce al poeta il suo statuto sacro ed eccezionale, ma anzi lo disprezza e lo deride, come i marinai con l’albatro.
Giorgio Caproni, Elogio della rosa
Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa.
Questi brevi versi di Giorgio Caproni (Livorno, 7 gennaio 1912 – Roma, 22 gennaio 1990) appaiono semplici, ma aprono in realtà un discorso filosofico molto ampio. Per semplificare, si potrebbe dire che l’essenza della rosa non può essere definita con le sole parole: i versi provocanti di Caproni rivelano l’insensatezza di cercare di ingabbiare il mondo e la sua bellezza in definizioni. La rosa in sé non corrisponde alle parole che noi usiamo per descriverla.
Shakespeare scrisse infatti nel Romeo e Giulietta:
Cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo.
Fiori, bellezza, poesia: parole semplici ed essenziali, ma profondamente dense e misteriosamente legate fin dall’antichità.
E alle cose più semplici, e proprio per questo affascinanti, Umberto Saba dedica la sua poetica di limpidezza, espressa quasi programmaticamente nella sua poesia più famosa, Amai:
M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
FONTI