Ingiusta vendetta o giusta rieducazione?

Quante volte abbiamo sentito dire (o abbiamo detto) frasi quali “ah, ci vorrebbe la pena di morte per certe persone!”, “ti auguro che ti capiti quello che hai fatto agli altri”, “vedi come imparano dopo averle prese” o addirittura, nel riferirsi con disprezzo a una persona omotransbifobica, il classico “gli auguro un figlio gay”?

Cosa c’è di sbagliato, non tanto nelle frasi in sé, quanto nei ragionamenti che ci sono dietro? Che si tende a confondere il concetto di vendetta con quello di giustizia, dimenticandosi anche dell’importanza della rieducazione.

Molte delle “soluzioni” avanzate nelle frasi esempio d’apertura non portano a una reale soluzione, ma solamente a un tamponamento momentaneo della situazione. O al massimo alla risoluzione del caso specifico, non del problema generale.

Come magistralmente spiegato da Gherardo Colombo,

Tradizionalmente, la giustizia è sempre stata considerata una vendetta istituzionale, il mezzo attraverso cui la vendetta privata è passata nelle mani dello Stato che ha così acquisito il monopolio della violenza e l’ha esercitata sottraendola ai singoli e svolgendo una funzione terza nel conflitto tra le parti, costituendosi, così, giudice.

Vendetta o giustizia?

La vendetta porta molto raramente a una riabilitazione della persona parte attiva del reato, non aiuta nel comprendere seriamente le ragioni del perché qualcosa sia sbagliato e nemmeno previene il riprodursi di tale atto, un po’ come la pena di morte.

Stando ai dati 2020 di Amnesty International, 108 Paesi hanno abolito la pena di morte, ventotto hanno smesso di applicarla attivamente e in cinquantacinque rimane, invece, attiva e presente. I Paesi col maggior tasso di esecuzioni portate a termine sono, in ordine, Cina, Iran, Egitto, Iraq e Arabia Saudita.

Come mai, nonostante la presenza di pena capitale (e spesso di torture e leggi liberticide) non sembra risolversi il problema a monte, in questi posti? Perché la pena di morte non ha mai davvero funzionato come deterrente, dalla storia dell’umanità ad oggi, altrimenti si vivrebbe in un mondo in costante pace da molto, molto tempo.

Certo, rispetto a una pena pecuniaria o detenzione la pena capitale fa più paura. Eppure i reati punibili con la vita non accennano a diminuire o sparire. Si pensa che eliminando il “problema a monte”, cioè l’esecutore del reato, si sia risolto tutto e la società sia tornata al sicuro, o quantomeno più al sicuro rispetto a prima. Ma lo stesso reato verrà commesso da altre persone, si continueranno a creare i presupposti affinché ciò accada (notoriamente povertà, disparità e spesso anche mancanza di giuste riabilitazioni).

Eliminando le cosiddette “mele marce” si cura l’apparente sintomo senza prevenire il male.

La pena che non spaventa: quella a morte

Dopotutto, la pena di morte è un omicidio (che spesso ha anche forme cruente) legalizzato. È come dire “è legale uccidere e togliere la vita a qualcuno ma solo in x condizione e se lo fa lo Stato”. Ciò porta la cittadinanza, o la persona comune che pronuncia le frasi in apertura, a scaricare la propria responsabilità morale allo Stato, non sentendosi più direttamente coinvolta o toccata da ciò. Lo fa lo Stato, ci pensa lo Stato.

Cosa accadrebbe, però, se per errore si condannasse la persona sbagliata e la si condannasse a morte? Non si potrebbe più tornare indietro.

E quando si condanna la persona giusta, cioè colei effettivamente parte attiva del reato, quando le viene comunicato del suo destino, come si sente? Non è una tortura emotiva o psicologica?

Eppure moltissimi Paesi, anche alcuni che ancora prevedono la pena di morte, si dicono assolutamente contrari alla tortura, misura ritenuta disumana e disumanizzante.

Allo stesso tempo si assiste a un’interessante dissonanza cognitiva, per la quale l’aborto o l’eutanasia – rispettivamente interruzione di gravidanza per moltissime ragioni diverse e disparate – e la morte assistita richiesta dalla persona direttamente interessata, vengono malviste in nome di un assoluto “diritto alla vita”, accompagnato da slogan quali “chi siamo noi per decidere chi deve vivere e morire?”.

La vendetta rende ciechi a questi paralleli, non considerando più degna la vita delle persone condannate a morte.

Il sistema penitenziario

Anche il sistema penitenziario, con le prigioni sempre sovraccariche, sovraffollate e sempre più complesse da gestire, sembra essere sempre più spesso motivo di lamentele o insoddisfazioni, tanto da parte dei detenuti, che di coloro che a essi sono esterni.

Ma prendere persone che abbiano commesso reati di varia natura (per ragioni diverse tra di loro) e rinchiuderle, ammassandole, in spazi angusti, in condizioni umane che spesso lasciano a desiderare, portandole a una radicalizzazione o peggioramento morale è una soluzione valida, soprattutto allo stato attuale delle cose e nel lungo termine?

Il modello riabilitativo svedese, ad esempio, prevede che il detenuto sia comunque trattato da essere umano, indipendentemente dalle circostanze, poiché come affermato da Nils Öberg, direttore di una prigione in Svezia, “Il nostro ruolo non è punire. La punizione è la sentenza di prigionia: sono stati privati della loro libertà. La loro punizione è che adesso sono con noi”.

Ripensare la ri-educazione letteralmente come una “nuova educazione” e non come una punizione, volta a umiliare e inibire le persone, potrebbe evitare radicalizzazioni, recidive e aiutare nella comprensione del perché certi atteggiamenti – o azioni – non vengano tollerati dalla società e siano dannosi.

Punire il male con altro male equivale a rimediare a uno sbaglio con un altro sbaglio. Non si auto-eliminano, si sommano, senza che nessuno ne giovi o impari qualcosa. Si nega in partenza l’opportunità di cambiamento o crescita a molte persone, che invece, potrebbero usufruirne.

Chiaramente non si può peccare di ingenuità e pensare che funzionerebbe per ogni singolo caso e con ogni detenuto, né credere che nell’arco di un certo tempo sparirebbe ogni torto o reato, ma essi potrebbero diminuire sia di numero che per gravità.

Spesso non si vuole davvero vendetta, ma un risarcimento – in forma pecuniaria, simbolica, morale o altro – che possa compensare al danno subito. Molti ordinamenti giuridici, infatti, prevedono dei ristori o risarcimenti a danni di varia natura, che consistano anche in azioni concrete.

Per reati di minore gravità, ad esempio, la pena prevista può essere un risarcimento in denaro e un determinato periodo da dedicare ai lavori sociali, per integrarsi o conoscere meglio la comunità nella quale si vive, o ancora, in certi casi, per toccare con mano la comunità che si discriminava e ai danni della quale è stato perpetrato il danno.

Il vero fine della pena: rieducare

Rieducare, col fine di poi re-inserire nella società le persone (eccezion fatta per gli ergastoli) prevede una serie di elementi: la comprensione del perché ciò che si è fatto sia sbagliato, un pentimento onesto, un trattamento umano e dignitoso sia dentro che fuori dal centro penitenziario e la reimmissione graduale nella società, poiché come spiegato da ristretti.it:

 […] una persona reclusa dovrebbe infatti essere preparata. Quindi servirebbe un passaggio intermedio tra carcere e dopo carcere. Difficilmente accade. Si danno permessi per questo, ma generalmente non sono consoni allo scopo da raggiungere. Già, perché in permesso chi ha una famiglia in qualche modo inizia un riallacciamento dei legami affettivi, ma chi è solo o è detenuto lontano dal suo ambiente famigliare (facile che capiti) va in permesso presso strutture a loro volta chiuse o comunque in un certo qual modo protette e non trova le condizioni vere che dovrà affrontare all’uscita dal carcere.

La vita reale fuori dal carcere non è statica, risucchia. Un “ristretto” dopo anni di chiusura totale vissuta a ritmi e spazi condizionati e determinati da altri, fa fatica, non è a suo agio, si perde. Questo provoca ansietà, paure, angosce. Una sensazione di vacillamento in uno spazio-tempo che non sente suo. Anche lì avrebbe bisogno di supporti: non dati “per forza” (ti costringo a farti aiutare), ma intesi come una porta aperta dove se vuole uno può essere libero di entrare o no.

Questo fatto, questa esigenza di non essere “ributtati nel mondo” senza un aiuto, non vengono presi in considerazione. E anche il lavoro all’esterno con un Articolo 21 “extramurario” o una semi-libertà sono occasioni sì, ma fortemente condizionate a loro volta. Queste “opportunità” di lavorare fuori dal carcere dovrebbero servire a procurarti un “re/inserimento” futuro. A parole è facile, un detenuto esce in semi-libertà, svolge un lavoro, si guarda due negozi, rientra in carcere. Certo incontra persone che non vivono la sua stessa condizione, disposte ad accettare la sua situazione con (naturalezza mi pare esagerato) benevolenza. Un’altra specie di protezione.

Ma quanti ristretti si ricostruiscono una vita nella città dove sono “ospiti temporanei” di un carcere? Credo pochi. Di conseguenza, seppure semiliberi o in Articolo 21, quando a Fine Pena se ne andranno e torneranno nella loro città, si potrà dire di loro che sono “RE/INSERITI?”.

Vittime e criminali o esseri umani?

Coloro che sono vittime di un reato, qualunque esso sia, sono persone, e come tali meritano giustizia. Bisogna ricordare, però, che anche coloro che compiono il reato sono persone e restano tali. Lo scopo della rieducazione e di un approccio più umano e meno vendicativo della giustizia è quello di far sì che ci siano meno vittime e carnefici ma sempre e solo più persone.

CREDITI

Copertina 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.