Da ormai diversi anni si parla, con crescente preoccupazione, di un fenomeno che potrebbe andare “a braccetto” col tema del cambiamento climatico: la scomparsa delle biodiversità. Tutti abbiamo, almeno una volta nella vita, sentito questa locuzione. Tutti l’abbiamo interpretata come un qualcosa di negativo. Tutti vogliamo scongiurarla. Ma quanti sanno cosa sia?
Una nuova era geologica
Homogecene. Ecco una parola che probabilmente non avete mai sentito, ma che potrebbe presto diventare di uso comune. Recenti analisi globali hanno affermato che la scomparsa delle biodiversità ha ormai raggiunto un livello critico, e che ci stiamo avvicinando, di fatto, a una nuova era geologica: l’Homogecene, appunto. Ma che significa, di preciso?
Col termine ci si riferisce alla comparsa, in ogni angolo del globo, di specie particolarmente invasive, che tendono a “invadere” un ecosistema e a mettere a repentaglio la vita delle sue specie peculiari. Queste specie invasive sono più o meno le stesse da ogni parte e, pur avendo avuto origine in aree e climi ben specifici, hanno capacità di adattamento e proliferazione che gli consentono di diffondersi a macchia d’olio. Il tutto, naturalmente, innescato dall’elevata interconnessione globale stabilita dall’uomo, che tende a diffondere specie provenienti da certe aree in zone del tutto differenti. L’incontro di queste specie con quelle autoctone tende a portare le seconde sull’orlo dell’estinzione, a favore delle prime.
Ecco cosa si intende con “Homogecene”: un’era geologica in cui l’intero pianeta veda uniformate, in ogni suo luogo, le specie che ci vivono. Il termine viene dal latino “homogenea” (“omogeneo”), ed è più importante di quanto sembri: delle miliardi di specie biologiche che abitavano in origine questo pianeta, appena qualche decina di migliaia potrebbe sopravvivere e proliferare. Secondo gli studiosi del settore, l’effetto sarebbe simile a quello di una nuova Pangea (quando tutte le terre emerse erano unificate in un unico continente, con variazioni relativamente minori di climi ed ecosistemi).
I numeri che problematizzano
Spiegato in astratto, il fenomeno può fare una certa impressione, ma forse non stupire. Come già detto, la maggior parte delle generazioni nate a partire dagli anni ’90 hanno una certa familiarità con l’espressione “scomparsa delle biodiversità”. Ciò non significa che tutti ne siano diventati esperti, o persino conoscitori. Ma di certo vuol dire che molti hanno tenuto in conto di assistere a un fenomeno del genere, e ne sono solo relativamente preoccupati. Per riuscire a comprendere quale sia l’effettiva portata dello stesso, bisogna innanzitutto partire da alcuni dati.
Per rendere un’idea della difficoltà di questi studi, basti pensare che ad oggi non siamo certi di quante specie viventi esistano al mondo. Le stime differiscono tra loro e i numeri spaziano tra i quattro e i cento milioni: non proprio un calcolo di precisione. Anche questi numeri vanno presi con le pinze: si stima che almeno l’86% delle specie viventi siano ancora sconosciute all’uomo. Non siamo sicuri di aver classificato nemmeno tutti i mammiferi e basti pensare che, per quanto riguarda i microrganismi come virus e batteri, siamo relativamente certi di essere fermi all’1%.
Incertezza e pessimismo
Evidenziata la problematica legata all’ambizione di fare calcoli precisi, ci sono altri numeri che destano allarme. Anche qui i calcoli di precisione sono pura utopia, ma diversi ricercatori sostengono che, ogni giorno, almeno cinquanta specie viventi andrebbero incontro all’estinzione. Il processo, va detto, non è uniforme: si lega a una serie di fattori vastissima e spesso imprevedibile.
Un esempio concreto e quasi universale riguarda lo studio del fenomeno su base statale: nazioni piccole e con una densità abitativa maggiore tendono ad avere tassi d’estinzione molto più alti rispetto a Stati grandi e relativamente poco abitati, come ad esempio la Groenlandia o l’Australia. Proprio per la natura varia e complessa delle diverse cause (che analizzeremo nel dettaglio più in là) che possono portare una specie all’estinzione, è difficile identificare con chiarezza un fenomeno omogeneo nel tempo e nello spazio.
Mancano poi, per lo più, studi che si concentrino su determinate biosfere, o quantomeno aree geografiche ben definite. Tutta questa serie di componenti porta spesso a sottostimare questi tassi, o addirittura a non poterne definire con precisione i numeri. Ma ce n’è uno in particolare, pubblicato in un interessante studio condotto da un team di scienziati internazionale, guidato dal dottor Le Roux, professore associato della Macquary University di Sidney, che fotografa la situazione preoccupante (addirittura, alcuni sostengono, fin troppo ottimisticamente): almeno il 20% delle specie vegetali conosciute sarebbero, ad oggi, ad alto rischio di estinzione.
Agricoltura, urbanizzazione e… alieni
Sorgerà naturale una domanda: “perché un numero così elevato di specie viventi sta andando incontro all’estinzione?” Come spesso accade, la risposta non è semplice, e certamente non è unica. Un dato dal quale bisogna partire per comprendere il fenomeno è che l’estinzione, di per sé, è un fenomeno assolutamente naturale: le specie che si ritrovino in forte svantaggio evolutivo rispetto alle altre sono sempre andate incontro alla scomparsa, per lasciare spazio ad altre più “adatte”. È Darwin che ce lo dice da tempo, pur probabilmente non aspettandosi le miopi distorsioni che le sue teorie hanno visto applicarsi alla sfera socio-politica umana. Un certo tasso di estinzione (stimato intorno a un numero variabile tra uno e dieci specie ogni anno) è dunque un fenomeno tutt’altro che allarmante.
Va però sottolineato un dato: secondo recenti studi del WWF, attualmente hanno luogo tra le mille e le diecimila estinzioni all’anno, ben mille volte il tasso “naturale”. Più di 20.000 specie animali sono a forte rischio. Non possiamo non chiederci, di fonte a questi dati, cosa ci abbia portati a una situazione tanto drammatica.
Invasioni aliene
Sempre secondo i dati del Dottor Le Roux, in circa un caso su due non siamo in grado di conoscere le cause dell’estinzione. Sappiamo però che l’uomo non è certo esente da colpe: tra le cause note, quasi il 40% del totale è rappresentato direttamente dall’urbanizzazione sfrenata, che porta alla devastazione di ecosistemi già naturalmente fragili, e dall’aumento sconsiderato delle terre sfruttate per l’agricoltura intensiva.
Resta però un altro fattore da considerare, e non è marginale: le “invasioni aliene“. Così presentata, la tesi potrà fare sorridere, ma si tratta di un problema serio. Gli ecosistemi terrestri sono basati su un loro proprio equilibrio, intrinseco e fragile. Basta l’introduzione di pochi esemplari di una specie appartenente a un ecosistema del tutto differente per stravolgere le dinamiche di quello “ospitante”, capovolgendone la catena alimentare e mettendo a rischio, più o meno direttamente, una non indifferente quantità di specie autoctone.
Come si potrà forse intuire, non si tratta di un fenomeno frequente in natura: spesso ciò accade per via dell’intensa globalizzazione che contraddistingue la società umana moderna, e che ha portato non solo le nostre società, ma anche i nostri ecosistemi a un contatto diventato ormai quasi sovrapposizione. L’introduzione delle specie esotiche nei climi europei o nordamericani, o viceversa il trasporto di alcuni animali ivi ben conosciuti in terre del tutto estranee, ha portato a un risultato che per molti versi ricorda il contatto tra gli Indios centro-sudamericani e i germi, a loro sconosciuti, delle principali patologie che infestavano la popolazione dei conquistadores da diversi secoli.
Alien, E.T. o…?
Esistono delle specie che, per fattori che riguardano unicamente faccende umane o anche per ragioni a esse estranee, sono più propense a sfociare in aree in cui non dovrebbero stare, e a fare più danni. Un esempio tra i più nefasti è una piaga ben nota agli abitanti dei Paesi dell’area mediterranea: la zanzara tigre. Si stenterà a crederci, ma questo insetto originario dell’Asia è enumerato come la “seconda specie invasiva più pericolosa”, e a buona ragione: non solo perché chi stila le liste è umano (e di conseguenza particolarmente attento ai patogeni trasportati dalle zanzare attraverso le rotte commerciali, quali il virus del Nilo occidentale o la dengue), ma anche per le sue notevoli capacità di proliferazione, che sono un elemento biologico vincente nella “corsa all’invasione”.
“E il primo nella lista?”, si potrà chiedere. Si tratta di una specie ben diversa dalla zanzara, anzi, per molti versi antagonista: è la Rhinella Marina, una rana originaria dell’America centrale che è stata massicciamente importata in vari Paesi orientali quali le Filippine o il Giappone. I contadini di questi Paesi pensavano di aver trovato l’arma vincente per sbarazzarsi dei parassiti locali, salvo poi scoprire che le tossine che ricoprono questa ranocchia uccidono all’istante qualsiasi animale tenti di predarla. Se questo fatto non bastasse, si pensi che una femmina di Rhinella depone in media diverse migliaia di uova all’anno. In Australia, nel 1935, furono introdotti 102 esemplari di rospo della canna da zucchero (questo il nome comune). Settantacinque anni dopo, nel 2010, gli esemplari erano almeno un miliardo e mezzo. L’impossibilità da parte dei predatori autoctoni di rallentarne la crescita ha portato a conseguenze ecologiche che ancora oggi sono in fase di studio.
La lista, stilata dall’ISSG (“Invasive Species Specialit Group”) e consultabile qui, sarebbe ancora lunga. Non esiste certo un “invasore universale”, dotato di caratteristiche accomunanti tutte le specie. A ben vedere, quanto di più simile vi esista è l’essere umano. Nel 1999 usciva nelle sale il film di culto Matrix, a firma dei fratelli Cohen, dove un magistrale Johathan Groff, nei panni dell’Agente Smith, sosteneva:
Improvvisamente ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga.
Senza voler, naturalmente, adottare i toni violenti e drammatici della “macchina-Groff”, resta un’autocritica interessante su cui riflettere.
Quali sono i rischi?
Veniamo al quesito che il lettore si starà – legittimamente – ponendo: “quali sono gli effetti di questo fenomeno? Cosa rischiamo?”. In apertura si parlava di una “nuova Pangea”: se un tempo tutte le terre emerse erano attaccate in un unico, maxi-continente, oggi andiamo incontro a uno scenario ben diverso eppure molto simile. Pur separati geograficamente, i diversi ecosistemi globali vedono assottigliarsi di giorno in giorno le differenze biologiche tra gli stessi. Se climi e ambienti mutano per fattori separati (come l’intervento diretto dell’uomo o per suoi effetti indiretti quali il cambiamento climatico), un ulteriore stravolgimento agli equilibri naturali lo porta la comparsa di specie aliene in zone a loro del tutto estranee, e la conseguente scomparsa di molte specie autoctone. Si va così verso un mondo sempre più ecologicamente uniforme, cosa assolutamente non “prevista” dalla natura stessa.
Anche se è spesso impossibile dimostrare l’utilità specifica di una singola specie animale o vegetale, è comprovato che sulla sua esistenza si basi (o si sia adattata, al più) la sopravvivenza e lo “stile di vita” di quelle conviventi. La scomparsa di una specie apparentemente ininfluente può generare una rapida escalation biologica che, come il proverbiale battito d’ali della farfalla, può mettere a rischio la sopravvivenza persino dell’uomo stesso. Tra le cause più dirette dell’attività umana che portano a questo fenomeno ci sono il rapido esaurirsi di risorse naturali in teoria inesauribili (come l’acqua potabile in determinate zone) o il rafforzamento innaturale e “forzoso” di alcune specie, ove il rischio maggiore è rappresentato dall’adattabilità di virus e batteri. Si stima che, senza considerare i rischi contingenti a livello sanitario e persino di sopravvivenza, la mancata tutela delle biodiversità costi all’Unione Europea circa il 7% del suo PIL (qui lo studio per approfondire il tema).
L’Homogecene alle porte
Ecco dunque i rischi principali, nonché i pochi prevedibili: scomparsa di risorse vitali in determinate aree e costi materiali ingenti nell’immediato, e minaccia alla sopravvivenza stessa dell’uomo sul lungo periodo. Gli ultimi anni ci hanno insegnato un fatto importante in biologia: un virus, per essere davvero efficace, deve moltiplicarsi a velocità maggiore rispetto al tempo impiegato per uccidere l’ospite. Non a caso i virus più “efficienti” sono quelli “benevoli”, che vivono in simbiosi con l’ospite: un patogeno che uccide più rapidamente della sua capacità di diffusione è un patogeno che avrà vita molto breve, come nel caso dell’ebola. L’uomo si moltiplica a tassi insostenibili, e ancor più velocemente, come giustamente sostiene il lucido Smith, uccide. Non manca molto prima che il patogeno inizi a risentire di questa sua caratteristica così brutale: l’Homogecene, con tutte le sue imprevedibili conseguenze, è alle porte.
FONTI
Lockwood Julie, Mckinney Michael, Rejmanek Marcel (2002), Waiting for the Homogecene, «Ecology», volume 83, p. 1472.
Rejmanek Marcel (2017), Vascular plant extinctions in California: A critical assessment, «Diversity and Distribuitions», volume 24, n. 1, pp. 129-136.
Rejmanek Marcel, Le Roux Johannes J. et al. (2019), Recent anthropogenic plant extinctions differ in biodiversity hotspots and coldspots, «Current Biology», volume 29, n. 17, pp. 2912-2918.e2.