Al termine di ricerche durate un triennio solo nella loro fase operativa, un team di studio dell’Università di Cardiff, guidato da Jane Greaves, ha annunciato, il 14 settembre del 2020, una scoperta a dir poco sensazionale: la possibilità che sul pianeta Venere esistano forme di vita. Al culmine di analisi condotte nel 2017, e poi di nuovo nel 2019 e nel 2020, gli studiosi sono arrivati a confermare la presenza, nell’atmosfera del pianeta, di un composto chimico molto particolare, l’idruro o triidruro di fosforo, formula chimica PH3, un gas meglio conosciuto come fosfina.
Lo statuto chimico e biologico della fosfina è a dir poco peculiare. È stato, storicamente, un “gas della morte”, usato come arma chimica nelle trincee durante la prima guerra mondiale; in generale, non favorisce la vita, anzi l’annienta, è un gas nocivo, che viene descritto come maleodorante e infiammabile. Oggi lo si impiega come fumigante in agricoltura, o ancora nel settore dei semiconduttori, ed è un sottoprodotto che scaturisce in laboratorio durante il processo di derivazione di metanfetamine. Ma c’è un grande paradosso: la fosfina annienta la vita, ma nelle grandi quantità non può essere prodotta da altro se non da un organismo vivente.
Il fascino di Venere
La scoperta del team di Cardiff rimette in questione una pluralità di ipotesi storicamente associate a Venere. Fin dalla nascita della moderna astronomia, infatti, si colse immediatamente come il pianeta disponesse di una serie di caratteristiche tali da apparentarlo alla Terra: simili dimensioni, simile gravità, analoga composizione chimica dell’atmosfera.
Il passo successivo non poteva che essere l’ipotesi dell’esistenza di forme di vita venusiane. Tuttavia, non mancavano fattori ostativi a questo genere di supposizioni: le temperature superiori ai 480 gradi centigradi, la ricchezza di anidride carbonica immagazzinata nell’atmosfera. Un caso diverso, però, era, ed è, quello delle nubi che occupano l’atmosfera di Venere.
Ingredienti biologici e raggi UV
Le nubi di Venere dispongono di luce solare, molecole organiche, acqua, tutti “ingredienti biologici” fondamentali, oltre a una pressione e a temperature paragonabili a quelle dell’atmosfera terrestre. Le nubi di Venere sono permanenti, cioè non sono destinate a rimanere per pochi giorni, o settimane, o mesi, nell’atmosfera del pianeta, bensì per milioni se non miliardi di anni.
Questo è un altro fattore che favorirebbe l’ipotesi della vita, insieme con il dato secondo cui l’atmosfera venusiana recepirebbe più raggi ultravioletti rispetto a quanto sarebbe lecito aspettarsi sulla base dei suoi componenti conosciuti, il che potrebbe spiegarsi ragionevolmente come conseguenza dell’attività di microbi aerei. La possibilità ritenuta più concreta da parte della comunità scientifica è la seguente: a una condizione passata, in cui sul pianeta vi era una sorta di oceano, sarebbe subentrata quella descritta, che avrebbe spinto le forme di vita che abitavano quell’oceano a “migrare” nelle nubi permanenti.
Un’ipotesi verisimile
Ovviamente, gli studiosi di Cardiff presero in debita considerazione l’ipotesi che il rilevamento di fosfina potesse scaturire da un errore nell’uso degli strumenti a loro disposizione, come i telescopi, o nella registrazione dei dati ottenuti. Ma d’altronde rimaneva saldo un punto: la fosfina può, in astratto, crearsi anche in assenza di vita, grazie a fenomeni come emissioni vulcaniche, lo sfregamento di placche tettoniche, delle piogge di bismuto.
Ma mai e poi mai, in seguito a tali eventi, si arriverebbe ai quantitativi di sostanza che gli studi condotti tra il 2017 e il 2020 hanno rintracciato e censito. Ragion per cui, qualora effettivamente i dati ricavati dagli studi e condivisi con la comunità scientifica coincidessero con la realtà dei fatti, quella della vita su Venere, o meglio, fra le sue nubi, si trasformerebbe in un’ipotesi non solo plausibile, ma addirittura verisimile.
Fotosintesi venusiana
Nel frattempo, la tesi del team di Cardiff sembrava supportata da uno studio parallelo. Il suo titolo è Potential for phototrophy in Venus’ clouds, venne pubblicato a inizio 2021 sulla rivista «Astrobiology», e il suo autore principale è il professore dell’università della California Rakesh Mogul. All’interno dell’articolo, Mogul e i suoi collaboratori illustrano una loro scoperta: su Venere, la fotosintesi potrebbe verificarsi 24 ore su 24.
Sulla Terra, come si sa, la fotosintesi ha luogo solo durante le ore diurne, quando la luce solare irraggia gli organismi naturalmente predisposti a questo processo biologico; la superiore quantità di energia termica o infrarossa proveniente dalla superficie venusiana consentirebbe a dei microrganismi di effettuare la fotosintesi durante l’intero arco di una giornata. Il meccanismo della fotosintesi venusiana sarebbe quasi integralmente identico a quello della fotosintesi terrestre, se non fosse per un’altra differenza: quella venusiana si verificherebbe proprio fra le nuvole, dove prolifererebbe una fauna di microrganismi fotosintetici.
Ipotesi contrarie
Le teorie sulla possibilità della vita sul pianeta Venere sono estremamente suggestive e riccamente giustificate, ma poggiano tutte inevitabilmente su un assunto di partenza: quello secondo cui le tracce rilevate tra il 2017 e il 2020 dal team di Cardiff coincidano effettivamente con il gas noto come fosfina.
Tale assunto è stato messo in questione, nel 2021, da uno studio congiunto dell’agenzia spaziale statunitense, la Nasa, e di un gruppo di università americane, che ha dimostrato come i rilevamenti dei colleghi gallesi siano stati male interpretati: il gas individuato non era fosfina, bensì anidride solforosa (SO2). La presenza dell’anidride solforosa nell’atmosfera di Venere è molto più facilmente spiegabile: si tratta addirittura del terzo componente chimico più presente sul pianeta.
Le missioni Nasa
Altri studi recenti hanno poi aggiunto un altro tassello, che ha (definitivamente?) demolito le ipotesi e le speranze delle ricerche precedenti: anche se su Venere ci fosse della fosfina, le nubi del pianeta sono del tutto incompatibili con la vita. Come ha infatti rilevato Hallsworth, con il suo team dell’Università di Belfast, le percentuali di umidità relativa sono troppo basse e quelle di acidità troppo elevate perché un organismo vivente possa trovarvi ospitalità.
Nonostante tutto ciò, la suggestione di trovare tracce biologiche su Venere, o, più in generale, di scoprire qualcosa in più su uno dei corpi celesti tutt’ora più enigmatici dell’intera Via Lattea, è un motore che continua ad alimentare studi, ricerche e missioni nello spazio, come quelle previste dalla Nasa per i due satelliti Da Vinci + e Veritas. Il fascino di Venere, insomma, sembra non essere scalfito dalla scienza, ma anzi costantemente alimentato.