Lo scorso gennaio, dal 17 al 19 per la precisione, Abu Dhabi ha “ospitato” il Summit Mondiale sull’Energia del Futuro. Le virgolette sono d’obbligo, dal momento che i Paesi ospiti (tutti circoscritti approssimativamente all’area mediorientale) si sono collegati a distanza a causa dell’emergenza Covid-19. Il tema dell’evento è piuttosto intuitivo: ogni Paese e azienda presente ha discusso e illustrato alternative alle fonti di energia fossile.
Paradosso o strategia?
Può forse apparire paradossale che i Paesi mediorientali, cioè quelli che detengono il controllo della maggior parte delle risorse fossili (nello specifico petrolifere) della Terra, vogliano porsi come avanguardia nel settore dell’energia alternativa. Paesi come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti esportano tonnellate di greggio ogni anno, e buona parte della loro (fiorente) economia si basa proprio su queste esportazioni. Apparirebbe dunque perfettamente logica una posizione ostracizzante qualsiasi alternativa energetica.
Ma la realtà, almeno formalmente, è ben diversa. Non è chiaramente possibile stabilire fin d’ora se si tratterà di un serio impegno sul futuro, o se si tratti piuttosto della pur comprensibile volontà di non restare alieni a un dibattito destinato a diventare intrinsecamente presente negli equilibri geopolitici. Nonostante dunque una dose di ragionevole dubbio, resta il fatto che molte sono state le idee e le proposte, alcune delle quali particolarmente concrete, come si illustrerà. Questo ci porta a concedere dunque il proverbiale beneficio del dubbio nei confronti di nazioni che potrebbero essere, semplicemente, ben consce della loro posizione a lungo termine: le risorse naturali quali il petrolio si esauriranno prima o poi, e già d’ora molti Stati (europei in primis) hanno avviato la corsa verso fonti d’energia alternative.
Il discorso si inserisce in una lunga serie di dibattiti inevitabilmente più ampi, dalla transizione verso fonti d’energia green a minore impatto ambientale fino alla necessità/volontà di ridefinire i rapporti diplomatici tra nazioni. I Paesi mediorientali, in questo senso, hanno visto davanti a loro una fase di declino, inevitabile per chi ha fondato la propria posizione nello scacchiere geopolitico sulla detenzione della maggior parte delle fonti d’energia. In questo senso, la volontà di porsi in testa all’innovazione energetica rappresenterebbe una strategia tanto economica quanto politica, finalizzata al mantenimento di un ruolo privilegiato negli equilibri globali. Per queste e molte altre ragioni, non deve stupire che gli Emirati Arabi Uniti battano molto sull’idrogeno (sono ad oggi tra i Paesi che maggiormente investono nel settore), e che altri quali Arabia Saudita e Oman stiano seguendo a ruota.
Un “vecchio amico”
Sebbene il Summit in questione sia appunto stato incentrato per lo più sull’idrogeno come fonte energetica del futuro, il discorso non può certamente essere limitato a quella che resta, per ora, una fonte puramente teorica. Come detto e come ovvio, il dibattito circa la transizione ecologica infiamma le sfere pubbliche della maggior parte dei Paesi del mondo e, come spesso accade, vige il principio “quot capita, tot sententiae”. Particolarmente forte è la voce di chi propugna un riaccentramento del dibattito sul tema dell‘energia nucleare.
Questa vecchia figura mitologica, sovente chiamata in causa da ormai diversi decenni, è tornata alla carica dopo l’inserimento, da parte della Commissione Europea, del nucleare tra le fonti d’energia efficienti e pulite che possano garantirsi come “traghettatori” verso un futuro a emissioni zero. Il testo ha fatto molto discutere (complice la parallela inclusione del gas alla pari del nucleare), e non avrebbe potuto essere altrimenti: l’Europa è già da tempo profondamente divisa sul tema.
Paesi come la Francia e la Svizzera investono pesantemente sul nucleare già da decenni e sono molto vicini all’autosufficienza energetica proprio grazie a esso. Altri Paesi, come la Germania, vedono nel nucleare una fonte d’energia non sufficientemente sicura e negli ultimi anni hanno preferito ricercare l’autosufficienza tramite massicci investimenti sulle fonti d’energia rinnovabili quali idroelettrica o eolica. Anche l’Italia, sin dal ben noto referendum del 2011, è restia ad appoggiarsi al nucleare, pur non rappresentando, a differenza dei vicini teutonici, un esempio particolarmente virtuoso, almeno dal punto di vista ambientale: se oltre l’80% dell’energia è autoprodotta, solo il 10% del fabbisogno totale è soddisfatto da fonti rinnovabili, il resto proviene per lo più dall’importazione di gas naturale (qui i dati completi relativi all’anno 2018, pubblicati dal gruppo Terna).
La riapertura del dibattito è stata inevitabile, dopo la recentissima scoperta avvenuta in un laboratorio di ricerca inglese, dove è stata per la prima volta resa possibile una fusione nucleare propriamente detta. Si risparmiano qui i tecnicismi circa la differenza tra fusione e fissione nucleare, ma per i curiosi si suggerisce di consultare l’articolo della BBC in merito e questo studio che ben sintetizza la delicata questione della fusione nucleare.
Ci vuole inventiva
A prescindere dalle opinioni individuali e politiche circa il nucleare, resta un fatto innegabile: è necessario un cambiamento. La totalità (per quanto umanamente possibile) della comunità scientifica è concorde nell’affermare l’urgenza di ridurre drasticamente le nostre emissioni nel minor tempo possibile, e ogni giorno in cui queste non diminuiscono è un ulteriore passo verso una catastrofe globale praticamente già annunciata. È necessario pertanto non porre pregiudiziali al dibattito e valutare razionalmente pro e contro di ogni alternativa al fossile. Il nucleare rappresenta la promessa di un’energia pulita e abbondante, questo è certo. Da decenni si lavora per renderla anche sicura, sia scongiurando eventuali incidenti che lavorando sullo smaltimento delle scorie radioattive prodotte dai reattori. Le obiezioni, però, si sprecano ugualmente, e con ragione: a oggi è ancora impossibile garantire uno sfruttamento in piena sicurezza di una risorsa tanto rischiosa.
E allora, a sprecarsi è anche la fantasia nel proporre diverse alternative. Se già la Germania (come molti altri Paesi, tra i quali, tardiva, c’è anche l’Italia) ha adottato una politica fortemente indirizzata alle rinnovabili “classiche”, non mancano idee tanto innovative quanto ingegnose, per non dire creative. Sempre al summit di Abu Dhabi, una delle proposte più interessanti proviene da Magaldi Power, una startup italiana. Una delle principali criticità legate a eolico e fotovoltaico è la loro intrinseca difficoltà di raccolta: questi sistemi dipendono infatti dalle condizioni atmosferiche, per loro natura variabili, e a questo si sopperisce generalmente con le fossili. Il problema maggiore è poi legato allo stoccaggio: le tecnologie ad oggi disponibili possono immagazzinare solo limitate quantità di energia, e quando queste sono sature si è paradossalmente costretti a interrompere la produzione.
Magaldi ha proposto come soluzione (già in stadio industriale avanzato) una tecnologia di accumulo (chiamata MGTES) basata su un letto di sabbia silicea fluida, capace di accumulare ingenti quantità di energia e di rilasciarla modularmene sotto forma di calore quando necessaria. Si tratta solo di uno dei tanti esempi di come diverse forze, politiche e produttive, si stiano muovendo anche al di fuori dei canali convenzionali per incentivare in maniera sempre più efficiente la transizione.
Non basta guardare avanti
Come già citato in precedenza, molti scienziati non riescono a essere del tutto ottimisti nei confronti di queste spinte. Con una certa dose di ragione, in effetti: molti sono concordi nell’affermare che guardare al futuro della produzione energetica potrebbe non bastare. I danni provocati al nostro ecosistema sono qualcosa di già avvenuto e pertanto di sostanzialmente irreparabile, ma che avviene in larghissima misura ancora oggi. È probabile che siano necessari interventi ben più drastici, per scongiurare la sconfitta in una delle imprese più difficili a cui l’umanità sia mai stata chiamata. Tradotto: o l’innovazione e la transizione avvengono oggi, come per magia, oppure dobbiamo lavorare su due fronti, e cercare di ridurre le emissioni anche in altro modo. Non necessariamente seguendo la narrazione della “decrescita felice”, che appare ormai vetusta, ma quantomeno modificando alcuni nostri comportamenti, e non solo quelli quotidiani. Abbiamo già trattato l’esempio dei Bitcoin come affare tutt’altro che virtuoso, ma qui se ne vuole proporre un altro.
A rischio di accuse di tendenziosità, si vuole qui citare un esempio che potrebbe apparire “mondano” rispetto al tema. Come sarà ben noto ai più, il gigante tecnologico Facebook ha recentemente deciso di darsi una nuova identità: la compagnia fondata da Mark Zuckerberg si chiama oggi “Meta”. Il cambio di nome non è solo
simbolico, ma risponde a due precise esigenze di mercato: cercare di distaccarsi nell’opinione comune dal social media più discusso del mondo (le cui politiche di trattamento dei dati degli utenti sono ormai sotto la lente d’ingrandimento di mezzo mondo), e al contempo virare con decisione verso una nuova frontiera tecnologica e commerciale. Il Metaverso sembra la realizzazione in “carne ed ossa” di un romanzo di fantascienza (o di un episodio di Black Mirror, per chi preferisce le serie TV): viene promessa una vita tutta digitale, uno spazio infinito nel quale si potrà avere interazioni sociali, svolgere attività ludiche di vario genere, persino (ma forse soprattutto) fare acquisti. Il sogno di molti videogiocatori, per certi versi.
Un’utile fuga?
Tralasciando discussioni etico-filosofiche per nulla disprezzabili, ma certamente troppo complesse e lunghe per essere citate qui (o ben formulate in uno stadio così acerbo di questa “innovazione”), ci sono altri aspetti sui quali è bene fare chiarezza. Volendo persino sorvolare sul fatto che, per qualcuno, il sogno sia già diventato incubo (si contano un minimo di due casi di violenza sessuale già registrati nel Metaverso, per “mano” di avatar digitali), resta un problema che si pensa sia destinato a far finire la rinnovata azienda della Silicon Valley nuovamente al centro del dibattito pubblico: l’impatto energetico del Metaverso.
Una simile tecnologia è legata a doppio filo alla realtà virtuale, naturalmente, e ai relativi centri dati (i quali si appoggiano a loro volta sui servizi di clouding). Tutte queste tecnologie, sfortunatamente, consumano ognuna una quantità impressionante di energia. Si stima che ogni video-giocatore che abbia le tecnologie necessarie per supportare la VR di Meta produca intorno ai mille chilogrammi di emissioni annue (qui un interessante studio sull’impatto ambientale del settore video ludico). I centri dati sono la parte della quale è più difficile stimare l’impatto ambientale, dal momento che molti non condividono questi dati. Un dato utile per immaginarne la portata però lo abbiamo: nel 2015 (prima dell’avvento di diversi cloud servers oggi molto usati come Microsoft’s Xbox Cloud Gaming) l’impatto di queste banche dati era del 2% della totalità delle emissioni di gas serra; poco più del valore di cui è responsabile l’intero settore dell’aviazione.
Sarebbe superfluo sottolineare come questi dati, pur importanti, certo non possano farci gridare allo scandalo e alla chiusura forzosa di ogni industria del settore video ludico. Si tratterebbe di una penosa caccia alle streghe, per di più senza solidi fondamenti scientifici. Possono però (e, in una certa misura, devono) spingerci a una riflessione: abbiamo bisogno di innovazioni come il Metaverso? Il dibattito non può né deve fermarsi al Metaverso in sé: questo ragionamento, per avere un’efficacia, deve essere trasversale e universale.
Veniamo da diversi secoli di fede cieca nel “progresso”, dove il semplice avanzamento scientifico e tecnologico sembrava di per sé garanzia della perfettibilità umana e del mondo. Questo si riteneva fino a che il Positivismo ottocentesco non ha dovuto fare i conti con gli orrori della Seconda Guerra mondiale, che ha dimostrato come il solo progresso non solo non sia la chiave per la salvezza, ma possa anzi essere un’arma a doppio taglio e causare catastrofi. Oggi il rischio da scongiurare è lo stesso: bisogna vigilare affinché non si ricada nella stessa tracotanza di ritenere il progresso scientifico un valore a sé stante.
“Invertire la rotta”
Tecnica neutra, uomo…
È indubbio come, proprio grazie alla ricerca, oggi una parte della popolazione (per quanto relativamente trascurabile, per via di eterne contraddizioni squisitamente umane) goda di uno stile di vita che nella storia non ha eguali. Vaccini, medicina di alto livello, case sicure e comode e ogni genere di comfort ci è stato donato da una tradizione plurisecolare di progresso, in questo caso propriamente detto. Lo stesso progresso ci ha però donato altresì armi biochimiche, bombe atomiche e OGM (che di per sé non rappresenterebbero un problema, ma si accompagnano ad alcune riflessioni quantomeno insidiose). Questi e diversi altri esempi ci dimostrano soltanto che la tecnica è sempre neutra, e che i suoi connotati positivi o negativi dipendono dall’uso che ne fa l’uomo, e dalla sua capacità di riflettere su ciò che la sua scienza può partorire.
Esiste un indubbio legame tra progresso tecnologico e capacità di vivere in un mondo libero da gas serra non necessari. Esistono però anche tante, troppe circostanze in cui la semplice innovazione è considerata valore assoluto, al punto da scavalcare gli altri. Non si può davvero accusare Marie Curie di essere responsabile delle stragi di Hiroshima e Nagasaki; così come sarebbe tendenzioso incolpare Tim Berners-Lee (inventore del World Wide Web) per le esecuzioni in diretta streaming attuate dall’ISIS. Semplicemente, questi scienziati (come molti altri) stavano lavorando su qualcosa di diverso, indubbiamente grande, che solo più avanti (dopo l’incontro con la non neutra, a differenza della pura tecnica, volontà umana) sono risultati utili per creazioni terribili. Ma non sempre va così.
Progresso sì, ma ragionato
Alfred Nobel, inventore della dinamite, Oppenheimer, Majorana e Fermi (figure di spicco del Progetto Manhattan), Thomas Migdley, che brevettò la prima miscela di benzina mista piombo… Tutti costoro, al contrario, sapevano benissimo su cosa stessero lavorando. La spinta della curiosità umana verso la scoperta è sempre lodevole, ma ci sono situazioni in cui sarebbe giusto, se non doveroso, fermarsi a riflettere. E resistere alle “tentazioni”. Ecco ciò che dovremmo fare oggi: riflettere e resistere.
Non si vuole stroncare il Metaverso come una sicura rovina per l’umanità: si vuole solo sollevare qualche dubbio circa l’opportunità dello stesso. In un contesto critico, in cui ogni singolo Watt di energia può essere cruciale per la sopravvivenza della specie, possiamo permetterci di consumare quantità smisurate di energia per permettere a una sola multinazionale di espandere i suoi affari oltre l’immaginabile, senza avere neppure una vera alternativa alle fonti fossili già pronta? Se non si vuole far la fine dei positivisti di inizio XX secolo, sarà necessario invertire la rotta. Questo Titanic non si scontrerà forse contro un iceberg, ma il destino che lo aspetta non è certo più tenero.
Un commento su “Progresso tecnologico ed emergenza climatica: un nuovo Positivismo?”