Nella notte fra il 26 e il 27 febbraio, secondo quanto riferito dai media locali, l’esercito ucraino ha distrutto un convoglio delle forze speciali cecene. Lo scontro si sarebbe verificato a Hostomel, a 40 km da Kiev. Vi sarebbe rimasto ucciso Magomed Tusyaev, il comandante del 141esimo reggimento della guardia cecena.
La notizia arriva poche ore dopo la diffusione di un video in cui i miliziani ceceni della Rogsvardia, la guardia nazionale cecena, direttamente dipendente dal Cremlino, si erano fatti riprendere nella stessa Hostomel, dove ha sede anche un aeroporto, la cui fabbrica aeronautica era stata sottoposta a un bombardamento da parte russa nelle prime ore di guerra.
Ramzan Kadyrov, il “capo dei Ceceni”
Una parte di queste truppe erano partite dalla capitale della Cecenia, Groznyj, dopo un’arringa tenuta dal presidente della repubblica cecena, o, come si definì lui stesso anni fa, “Capo della Cecenia”, Ramzan Kadyrov. Il quale annunciava la disponibilità di 10.000 uomini a sostegno del disegno del presidente russo Vladimir Putin. E metteva in guardia quello ucraino Zelensky, consigliandogli di “chiedere scusa” a Putin per evitare di diventare “ex presidente”.
Ramzan Kadyrov è il figlio di Ahkmet Kadyrov, Presidente della Repubblica Cecena fino al 9 maggio 2004, quando rimase ucciso in un attentato ordito nei suoi confronti. Il 15 febbraio 2007 fu “suggerito” come presidente da Vladimir Putin, tre anni dopo acquistò il titolo di “Capo dei Ceceni” come conseguenza della conclusione ufficiale del conflitto russo-ceceno, determinata dalla decisione di Putin di porre fine al “regime antiterroristico” instaurato per fronteggiare le istanze separatiste portate avanti tra le fine degli anni Novanta e i primi Duemila.
Le due guerre cecene
La Cecenia è stata una provincia ribelle dell’impero zarista dalla fine del Settecento. In questa regione della Ciscaucasia centro-orientale, sembra che la storia sia destinata a ripetersi senza soluzione di continuità. La Cecenia è da sempre provincia di sangue, coacervo di violenze indicibili, scontri fratricidi, violazioni dei diritti umani.
L’insurrezione degli anni 1940-1944 ebbe come conseguenza la deportazione del popolo ceceno, insieme al popolo inguscio, e il reinsediamento in Kazakistan. La seconda escalation si verificò alla fine del “secolo breve”, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, con la dichiarazione di indipendenza del 1991 e la nomina a presidente di Dzochar Dudaev, cui la Russia reagì sedando le insurrezioni dei ribelli nell’arco di un biennio.
La seconda guerra cecena scoppiò nel 1996; il motivo politico era affiancato con superiore insistenza da quello religioso, dato che la popolazione cecena è a maggioranza islamica, e al primo conflitto su larga scala era seguita una radicalizzazione dovuta alla penetrazione della corrente estremista del wahabismo. Questo conflitto fu testimoniato da Anna Politkovskaja, che denunciò i rastrellamenti, i rapimenti e l’utilizzo di campi di detenzione, e pagò l’onestà del suo lavoro di reporter con la vita, nel 2006.
Diversi report di agenzie di sicurezza internazionali registrano gli stretti rapporti intercorsi in passato e tutt’ora vivi fra la Jihad siriana e gruppi paramilitari ceceni intervenuti nei conflitti di inizio anni 2010 in Nordafrica e tornati in Russia da foreign fighters. La Cecenia è stata trasformata in una valle di lacrime, una polveriera, la matrice di un caleidoscopio di nefandezze.
Il modello ceceno
Ormai abbandonato il “sogno” del blitz-krieg, della guerra-lampo, gli strateghi russi sembrano essere stati costretti a adottare il modello di guerra impiegato proprio in Cecenia; come spiega su «Domani» Vittorio da Rolo, esso “prevede l’invasione completa e il controllo totale del territorio, è il più costoso e sanguinoso e inoltre si espone alla guerriglia interna e a possibili attentati nelle città russe”. Un modello diverso da quello applicato nel 2008 alla Georgia: “una breve guerra lampo a difesa di minoranze russofone”, nella convinzione di “non avere conseguenze internazionali”.
I conflitti ceceni, e soprattutto la strategia applicata dalla resistenza, hanno lasciato strascichi visibili fino a oggi. Per esempio erano ceceni Dzochar e Tamerlan Carnaev, i due responsabili dell’attentato alla maratona di Boston del 15 aprile 2013, costato la vita a 3 persone. La strategia terroristico-stragista di matrice jihadista e quella della guerriglia sono d’altronde le armi usate da sempre nell’ambito di questo conflitto, soprattutto nel decennio 1999-2009: oltre all’assassinio di Kadyrov padre, ci fu anche, nel 2005, quello di Maschadov, mediatore nei rapporti tra Groznyj e Mosca e ritenuto il leader degli indipendentisti. Impossibile dimenticare poi la crisi del teatro Dobrovka del 2004, e il massacro in una scuola di Beslan, in Ossezia del Nord, risalente all’anno successivo. Tuttavia, ancor prima di essere costretti a imitare i ceceni nelle strategie della guerriglia urbana da loro inaugurate a inizio millennio, gli abitanti di Kiev si augurano che il conflitto che ormai li vede coinvolti direttamente non si concluda come quello ceceno nel 2000, quando i russi entrarono nella capitale Groznyj e la rasero al suolo.
La mafia cecena
Ma c’è un’altra forza, solitamente carsica, sotterranea, che in Cecenia è molto più di un deep state, anzi, è alla piena luce del sole. Si tratta della “Obscina”, un’organizzazione mafiosa che intrattiene stretti legami con i talebani afghani e altre organizzazioni jihadiste, e con l’Emirato del Caucaso, movimento islamista ceceno fondato nell’anno 2007.
“Non vorrei ricorrere al gergo, ma noi abbiamo un codice: se un ragazzo dice una cosa, il ragazzo poi la fa. E i codici vanno rispettati anche a livello internazionale”. Sono parole pronunciate qualche giorno prima dell’invasione russa in Ucraina da Sergey Lavrov, ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa. La parola “ragazzo” traduce “pazan” che, come illustrato da Anna Zafesova («La Stampa», 20 febbraio 2022), ha in realtà un significato più simile a “picciotto”.
Un sicilianismo prestato all’italiano, il modo in cui “Cosa nostra” identifica un suo componente. Lavrov ha utilizzato quindi un termine che afferisce all’area semantica della malavita, della mafia. Un “sempreverde” nella retorica di Putin e dei suoi più diretti collaboratori, se è vero che proprio in relazione alla guerra cecena “Vova”, come lo chiamano affettuosamente i suoi sudditi, parlò della necessità di “andare ad ammazzare i ribelli nei cessi”.
Rapporti difficili
Insomma, Putin ha avviato una guerra “sporca” che rischia di somigliare sempre più al modello ceceno, e si è appropriato dei codici linguistici tipici della mafia locale; inoltre, ha deciso in prima persona, prescindendo dai vertici del comando militare, come riferiscono le fonti, di servirsi delle truppe del leader ceceno come alleate nel conflitto ucraino. Nel frattempo, però, Kadyrov, che guida a distanza il convoglio dei Kadyrovites, che da lui stesso traggono il loro nome, deve fronteggiare un nemico interno, il battaglione Sheikh Mansur, storicamente avverso a Mosca.
Non solo: come riportano diverse fonti internazionali, l’indipendenza decisionale e il protagonismo di Kadyrov non hanno soddisfatto Putin, negli ultimi anni; il suo potere personale, militare anzitutto, ha però spinto l’ex agente del KGB, almeno finora, a desistere da ogni tentativo di modifica dello status quo. Staremo a vedere come evolverà la situazione in questi giorni e nei prossimi mesi. Quel che è certo è che, comunque andranno le cose, il rischio è che a farne le spese siano, una volta di più, gli stessi ceceni. Quando fu contestata a Putin la feroce repressione dell’omosessualità messa in atto dal suo sodale ceceno, il presidente russo rispose, serafico: “In Cecenia di omosessuali non ce ne sono”.