Il fascino del piano sequenza

Unità narrativa composta da una sola inquadratura che può non essere concepita in profondità di campo, ma deve essere una sequenza.

Così nel 1966 il semiologo Christian Metz definì il piano sequenza, uno dei principali modelli di sequenza che è indissolubilmente connesso alla dimensione narrativa del film. Ma da dove deriva questa definizione e in cosa consiste questa particolare ed affascinante tecnica di ripresa?

La definizione

In italiano plan-séquence può essere tradotto con inquadratura-sequenza: questa dicitura evoca quindi l’idea di una sequenza composta da una sola inquadratura. Il regista effettua una ripresa senza mai eseguire tagli di montaggio.

Prima di Metz fu il teorico francese André Bazin a formulare una definizione di piano sequenza. Per farlo dovette tenere in considerazione alcune riflessioni legate al concetto di profondità di campo. Prendendo come esempio il cinema di Orson Welles, Bazin definisce il piano sequenza come la ripresa di un’azione con un’unica inquadratura sfruttando la profondità di campo anziché servirsi del montaggio.

“Citizen Kane” e la profondità di campo

L’esempio che porta Bazin si riferisce alla celeberrima scena tratta dal film Citizen Kane (1941) in cui Susan, la moglie del protagonista, tenta di avvelenarsi. In questa sequenza si può notare come Welles sfrutti la profondità di campo ‒ che si ottiene quando tutti gli elementi in scena sono a fuoco ‒ per creare un piano sequenza. Con un’unica ripresa fissa vengono mostrate diverse azioni e il pubblico concentra l’attenzione in base alla loro importanza.

Il bicchiere in primo piano, la boccetta di veleno poco più dietro e in lontananza la porta della stanza da cui provengono colpi insistenti. Lo spettatore è portato inizialmente a guardare la boccetta di veleno e solo successivamente la porta da cui entrano i due uomini. Normalmente un regista avrebbe inquadrato prima solo la boccetta, poi solo Susan e infine la porta. Welles decide di rivoluzionare il linguaggio cinematografico realizzando queste “lunghe riprese senza stacchi” che racchiudono in sé un intero episodio narrativo.

Un primo tentativo

Alcuni primi esperimenti di piano sequenza vennero realizzati già nel 1948. Alfred Hitchcock fu tra i primi registi a trovare un modo per far credere al suo pubblico di aver realizzato un film con un’unica ripresa. In The rope vengono effettuati ben 9 tagli di montaggio ma il regista li mascherò facendo coincidere il passaggio da un rullo all’altro con il passaggio degli attori davanti all’obiettivo della macchina da presa. In questo modo potevano essere eseguiti gli stacchi mantenendo comunque una continuità sia spaziale che temporale. Il film è composto in totale da 10 piani sequenza di 10 minuti circa ciascuno un rullo infatti equivale a 300 metri di pellicola .

In uno di questi piani sequenza Hitchcock sfrutta i movimenti di macchina per descrivere la pianificazione dell’omicidio. La stanza è completamente vuota ma si sente la voce fuori campo del protagonista, Rupert, mentre descrive la scena. La macchina da presa si muove mostrandoci diversi dettagli come per farci immaginare lo svolgimento dell’azione. Alle parole si associano le immagini e la macchina diventa un “uomo invisibile che gironzola per casa”.

La celebre sequenza d’apertura

Ovviamente anche Orson Welles sfruttò le potenzialità del piano sequenza, in particolar modo in un film la cui sequenza d’apertura è una tra le più famose della storia del cinema. I primi tre minuti de L’infernale Quinlan (1958) sono stati realizzati con un’unica ripresa mostrando allo spettatore la sistemazione della dinamite nella macchina e quindi l’antefatto di tutta la vicenda. Lo spazio scenico in cui si effettuano le riprese (ricostruito in studio) viene ulteriormente esteso grazie all’utilizzo del grandangolo.

Il mostrare allo spettatore qualcosa che i personaggi del film non sanno è la prima regola per creare suspence secondo Alfred Hitchcock. Se il pubblico sa che sta per succedere qualcosa di spiacevole la tensione aumenterà per tutta la durata della scena. É questa la differenza tra sorpresa e suspence: la consapevolezza dello spettatore.

Soggettiva e semi-soggettiva

Il piano sequenza può essere utilizzato anche in maniera creativa e due registi in particolare hanno realizzato delle pellicole rappresentative. Il primo di questi è Gaspar Noé che nel suo trip mentale allucinato Enter the void (2009) realizza i primi cinque minuti attraverso un’unica lunga ripresa. La particolarità sta nel fatto che oltre a non esserci tagli di montaggio le inquadrature sono realizzate in soggettiva: si guarda attraverso gli occhi del protagonista, un giovane spacciatore appena sbarcato in Giappone. Il regista vuole rendere l’esperienza il più possibile realistica tanto da simulare lo sbattere delle palpebre.

Il piano sequenza assume quindi un valore semantico tanto da trasmettere i dolori e i piaceri della mente umana. Un viaggio “stupefacente” in cui il protagonista diventa lo spettatore stesso. L’immedesimazione che ne scaturisce aumenta il senso di realismo accentuato dagli effetti visivi che simulano le sensazioni che si provano sotto l’effetto della droga.

Il punto di forza di Enter the void quindi non sta nella narrazione, che dopotutto rimane abbastanza pedante senza che la sceneggiatura regali picchi d’attenzione (la pellicola dura 161 interminabili minuti). La cosa che contraddistingue questo prodotto da tutti gli altri film sono le scelte registiche e l’aspetto visivo.

Nella pellicola del regista statunitense Gus Van Sant Elephant (2003) il processo è molto simile poiché in alcune scene lo spettatore segue le vicende dei personaggi da un punto di vista molto simile al loro, ma in questo caso si tratta di una semi-soggettiva. In questa tecnica di ripresa il punto di vista non è più condiviso ma leggermente spostato, in modo tale che sia visibile sia il soggetto che guarda sia ciò che sta guardando. Questo realismo diventa il mezzo per far immergere e al tempo stesso estraniare lo spettatore. Le inquadrature che il regista realizza ricordano i primi videogiochi degli anni 2000, enfatizzandone così l’immedesimazione.

Un unico piano sequenza

Un tentativo molto vicino alla realizzazione di un’unico piano sequenza si ha nel film di Alejandro González Iñárritu Birdman – o (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza) del 2014, interamente realizzato con la steadicam. La macchina da presa esplora i meandri del backstage di un teatro di Broadway seguendo caoticamente tutti i personaggi nei loro litigi, schiamazzi e monologhi interiori. Questa si limita a seguire i loro spostamenti lasciando il controllo della narrazione alla sceneggiatura e ai dialoghi.

In questo lungometraggio il regista sfrutta l’oscurità e gli effetti speciali per effettuare dei tagli di montaggio e far sì che la ripresa sembri continua. In questo caso però non è mantenuta la continuità spazio-temporale come in The rope, in cui il tempo filmico corrispondeva al tempo reale: Iñárritu utilizza i movimenti della macchina da presa per simulare dei finti piani sequenza che implicano anche un trascorso temporale.

L’esempio più estremo in cui piano sequenza e soggettiva si fondono è Arca russa, un film del 2009 della durata di un’ora e trentanove minuti. Il regista Aleksandr Sokurov dopo ben quattro tentativi il primo dei quali interrotto dopo cinque minuti è il primo ad aver realizzato un film interamente in piano sequenza. Per tutta la durata lo spettatore vede attraverso gli occhi del protagonista (in soggettiva) del quale si sente solo la voce. Le riprese sono state effettuate all’interno del palazzo dell’Ermitage di San Pietroburgo e ci sono voluti 867 attori, 22 assistenti alla regia e 3 orchestre. 

La pellicola diventa il pretesto per mostrare attraverso un lento flusso temporale lo sviluppo dell’identità della nazione. In questo caso il tempo reale non corrisponde al tempo filmico, in quanto nei 90 minuti della pellicola vengono ripercorsi tre secoli di storia.

Un’ambiziosa scelta registica

Anche lo spettatore diviene parte attiva nel momento in cui decide di guardare un film girato in piano sequenza. Per la prima volta infatti viene messo in difficoltà poiché è inevitabilmente costretto a scegliere tra cosa guardare e cosa trascurare. La profondità di campo mette tutti gli elementi in scena sullo stesso piano e lo spettatore ha piena libertà su che cosa porre l’attenzione. Con il montaggio classico invece è il regista a guidare l’occhio del pubblico, a volte ingannandolo facendogli credere quello che vuole fargli credere.

Il piano sequenza ha quindi tantissime potenzialità che i registi amano da sempre indagare e sperimentare. Non sempre questa tecnica è semplice da realizzare, ma di sicuro sa restituire un certo fascino entusiasmando moltissimi cinefili.

 

FONTI

A. Bazin, Che cos’è il cinema? (titolo originale: Qu’est-ce que le cinéma?), Garzanti Editore, Milano 1999

G. Rondolino, D. Tomasi, Manuale del film. Linguaggio, racconti, analisi, DeAgostini Scuola, Novara 2018

treccani.it

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