Moda maschile: l’arte della minima variazione

Oggi tacchi vertiginosi, abiti riccamente decorati e gioielli paiono assenti nella moda maschile; l’abbigliamento degli uomini, nonostante le audaci proposte dei designer di moda, sembra arroccato in pochi capi sedimentati nel tempo, astenendosi da sperimentazioni fantasiose. Eppure, un tempo, anche gli uomini godevano del privilegio della frivolezza, quanto le donne, destreggiandosi tra calzari cerulei e cappelli piumati nella volontà di essere ammirati.

Tale privilegio non era determinato dal sesso, ma dalla classe. Chi era più povero vestiva in maniera semplice e frugale, chi era ricco poteva invece variare. Le classi sociali erano cristallizzate, e per la costruzione di un sistema più fluido bisognerà attendere la Rivoluzione francese. Così, fino a quel momento uomini e donne aristocratici poterono crogiolarsi nel lusso, impettiti in fogge variopinte e broccati, usati a profusione.

La Grande Rinuncia

Quando i regni aristocratici, intrisi di sfarzo e diseguaglianza, cominciarono a vacillare, i costumi si adattarono, dando inizio a un nuovo corso. Seguì alla Rivoluzione Francese la stagione del direttorio, in cui i costumi, per ambo i sessi, furono semplificati. Tale standardizzazione durò poco, con l’insediarsi di un nuovo modello societario, quello borghese, avvenne il radicale cambiamento. Secondo John Flügel, psicologo e autore de “La Psicologia della Moda“, nella metà dell’800 ci fu una netta divisione del costume, la Grande Rinuncia; gli uomini abbandonarono definitivamente i costumi sfarzosi, in favore di un abito sobrio e distinto, il tre pezzi, giacca, gilet e pantalone. Il costume dell’uomo venne adattato al nuovo stile di vita, non più quello di corte, ma quello del lavoro. Alla donna, invece, rimase la possibilità di giocare e sperimentare con l’abito. Il vestito della moglie divenne lo specchio della ricchezza della famiglia.

Dandy

Contestualmente al cambiamento dei costumi, emerse la figura del Dandy; esteta ottocentesco, celebrato dalla più grande letteratura, da Oscar Wilde, al nostrano D’Annunzio, che ha fatto dell’estetica la sua etica. Il dandy rifiutò la semplicità borghese, per rifugiarsi nelle impressioni nostalgiche del passato, dettagli romantici su abito classico: il dandy era elegante e distinto, ma mai eccentrico, perché se no facilmente imitabile.

Contestando silenziosamente l’ipocrisia della forma democratica dell’abito, il dandy, grazie alla meticolosa ricerca nei tessuti e nei dettagli, fuoriuscì dalla dialettica proletariato/borghesia. Con il suo carattere irriverente e con la finta noncuranza della pochette, spiegazzata nel taschino della giacca, sbeffeggiava i seriosi uomini borghesi e la loro mancanza di gusto.

Roland Barthes nel saggio Le Dandysme et la Mode, delinea la fenomenologia estetica del dandy, in cui il comportamento fisico è la via d’accesso al pensiero. Ogni indumento indossato è frutto di una corposa riflessione sul proprio modo di essere e di presentarsi, quasi una riscrittura del cogito cartesiano in versione moda: “sum ergo vestiuntur“.

Sempre Barthes, individua nell’avvento delle boutique la fine del fenomeno del dandismo,

Comprando una camicia, una cravatta o un fermapolsi da X o da Z, ci si conforma a un certo stile, e si rinuncia a qualsiasi invenzione personale (potremmo dire: narcisistica) della singolarità. Per un’esigenza fondamentale, il dandismo era una forma di creazione: il dandy concepiva il suo abito esattamente come un artista moderno crea una composizione a partire da materiali comuni (per esempio nel collage); come dire che, in definitiva, il dandy non poteva comprare il suo vestito. Ridotto a libertà d’acquisto (e non di creazione) il dandismo è morto: comprare l’ultimo modello di scarpe italiane o il tweed inglese ultimo è un atto eminentemente volgare, nella misura in cui esso presuppone una conformità alla Moda.

Il dandismo quindi non era mera espressione di un gusto estetico, ma filosofia che per sua costituzione non poteva assurgere a fenomeno di massa.

Gli anni Sessanta e le subculture

Agli albori del ‘900, dunque, sembrava che l’interesse per uno stile ricercato e distintivo fosse prerogativa di pochi uomini che avevano deciso di innalzare la ricerca del bello a stile di vita, e non possibilità per chi, invece, era membro di una massa informe. L’estetica vestimentaria maschile inizia a cambiare negli anni Sessanta; le contestazioni giovanili e il desiderio di riscrivere il nuovo ordine sociale sono i motori del tramonto del formalismo nel modo di vestirsi, in favore di vestiti più morbidi e colorati. Questa è anche la stagione delle subculture, che per oltre trent’anni forgiano nuove proposte stilistiche in antagonismo al canone delle élite borghesi, detentrici del potere.

Si appiattiscono considerevolmente anche le differenze nell’abito tra uomo e donna, svuotando quasi di significato il look androgino che negli anni ’30 era stato assunto dalle grandi dive come Marlene Dietrich. Una considerazione è però indubbia: sono le donne a fare incursione nei guardaroba maschili assumendo la stessa uniforme nella vita di tutti i giorni, e non il contrario. I colori tenui e poco appariscenti decretati nella Grande Rinuncia, ora vengono anche destinati ai tailleur femminili, ribadendo la sobrietà e presentabilità dell’uniforme maschile tradizionale.

Negli anni Settanta, mentre nell’ambiente subculturale i giovani continuano ad evadere l’uniforme borghese, cercando vie alterative radicali, anche quest’ultima subisce variazioni importanti.

Nino Cerruti e Giorgio Armani contribuiscono a creare uno stile fluido, prima ancora che il concetto stesso di “fluido” venisse capitalizzato. I due, l’uno maestro, e l’altro allievo, destrutturano la classica giacca maschile, prima di allora aderente al corpo e d’impaccio per i movimenti. La giacca viene smontata e poi rimessa insieme, privata di imbottitura, fodera e controfodera. Il trionfo del nuovo stile “rilassato” è nel 1979, quando Giorgio Armani firma i costumi di Richard Gere in American Gigolò, battezzando il nuovo stile italiano.

La contraddizione degli Ottanta

Nella seconda metà del XX secolo, si rafforza il contrasto tra subcultura e cultura dominante, specie nella Moda. A New York gli avventori di realtà come il Club 54 abbandonavano le convenzioni formali per abbracciare lo sperimentalismo; Mick Jagger in Yves Saint Laurent, Andy Warhol e Diana Ross forgiavano una nuova cultura del piacere. Era l’aristocrazia dello spettacolo, che nella notte, al riparo da occhi indiscreti, trasformava inclusività e libertà in condizione per tutti. In controparte, nello stesso periodo, le due più grandi potenze occidentali, US e UK, vedevano al governo rispettivamente Ronald Reagan e Margaret Thatcher, conservatori neoliberisti. In questo clima, nel 1985, Jean Paul Gaultier con la collezione “E Dio creò l’uomoporta in passerella un uomo in gonna.

La gonna maschile

Gonna oggi sempre più presente nelle collezioni menswear, condivisa compulsivamente online, quando indossata da Harry Styles, ma suscitante ancora il clamore di tanti quando a portarla sono membri della società civile. Nonostante siano passati quasi quarant’anni dalla sua re-introduzione, ancora non ha attecchito.

Politico

In primo luogo il carattere della gonna è fortemente politico, indossarla senza tal fine, in virtù della sola estetica è difficile, se non impossibile. Se le donne, quando si sono appropriate dei pantaloni, hanno avuto come spinta motrice il bisogno di comodità, gli uomini tale spinta non la hanno. La gonna non è né comoda, né funzionale, e allo stato attuale, il suo utilizzo non può prescindere da una dichiarazione precisa di intenti, da una presa di distanza radicale da un’assioma stilistico standardizzato e sedimentato in più di un secolo. Non molti, hanno il coraggio e la motivazione per intraprendere tale cambiamento.

Economico

In secondo luogo, il fattore economico. Come mai è soltanto nei negozi di fascia alta che è possibile acquistare una gonna all’interno di un reparto maschile, e non anche nei negozi di fascia medio-bassa? Supponendo di voler acquistare on-line il suddetto capo ci si scontra con la realtà dei fatti, comprare una gonna, per un uomo è difficile. Digitando “gonna uomo” su un qualsiasi motore di ricerca, si è indirizzati a vetrine Amazon di gonne per donne, a siti di abbigliamento “fetish” per uomini, o a siti scozzesi in cui poter acquistare un kilt. Non è un percorso d’acquisto lineare, specie se si pensa alla facilità con cui l’evoluzione tecnologica ha portato a compiere i consumi.  Dunque per poter sfoggiare una gonna, senza acquistare nel lusso, le strade sono due: o farsela fare su misura oppure attingere ai guardaroba o ai reparti femminili di un negozio.

Ecco che un semplice indumento crea una radicale divisione, non solo identitaria, ma anche politica. Allo stato attuale la gonna rappresenta, da un lato libertà d’espressione individuale, ma dall’altro, appartenenza a una classe che tale libertà può pagarla, ma a caro prezzo.


FONTI

Harpersbazaar.com

Doppiozero.com

Treccani.it

Ricerca.gelocal.it

Repubblica.it

Ilfoglio.it

Vogue.it

Vogue.it

Gnoli Sofia, Ephimera- Dialoghi sulla Moda, Milano, 2020, Electa

Riello Giorgio La Moda Una storia dal Medioevo a oggi, 2021, Bari, Laterza

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