Il “Macbeth” secondo Joel Coen

Per la prima volta il regista Joel Coen dirige in solitaria portando sullo schermo una delle opere più famose di William Shakespeare. Macbeth è una figura complessa e allo stesso tempo affascinante che ha incuriosito prima di lui altri registi come Orson Welles e Roman Polanski, che con le loro pellicole hanno dato una personale interpretazione a quest’opera di immortale bellezza. Nonostante ciò il regista statunitense riesce a proporre una versione dall’altissima carica drammaturgica mediante un comparto tecnico impeccabile che coopera con l’intero cast dando ancora una volta prova della sua bravura.

È un pugnale ch’io vedo innanzi a me col manico rivolto alla mia mano?… Qua, ch’io t’afferri!… No, non t’ho afferrato… Eppure tu sei qui, mi stai davanti… O non sei percettibile alla presa come alla vista, immagine fatale?

La tragicità di Macbeth

Opera complessa tra le più apprezzate il Macbeth di Shakespeare mette a nudo la fragilità dell’essere umano e la facilità con cui questo viene inibito dalle sue stesse ambizioni. L’esito di tale condotta si rivela essere un vortice inesorabile di errori e soprattutto orrori. I personaggi risultano ambigui e immersi in un’atmosfera che fin dall’inizio si rivela apocalittica: abbandonati a loro stessi devono districarsi in decisioni cruciali dal peso psicologico insopportabile.

La morale gioca un ruolo fondamentale in questo dramma familiare: Lady Macbeth è da sempre considerata come la personificazione del male in quanto è colei che convince Macbeth a compiere il primo gesto fatale che stravolgerà il corso degli eventi. Ma al contrario del marito che valorosamente affronterà fino alla fine la sua miserabile condizione, la donna non sarà capace di sopportare il senso di colpa sopperendo al dolore.

Il soprannaturale è presente con apparizioni di spettri, fantasmi, che rappresentano le colpe e le angosce dell’animo umano, nonché dalla presenza, forse reale o forse solo immaginata, delle tre streghe, quali emissarie di un Fato incombente e ineffabile, giustificazione e al tempo stesso ineluttabile sovrano delle sorti degli uomini.

Coen ha la possibilità quindi di ragionare sul concetto di male e di come questo possa diffondersi come veleno nella mente umana. Già nei suoi film precedenti come Non è un paese per vecchi e Fargo aveva sfruttato un sottile humor per raccontare storie dense di crudeltà: lo stesso succede in The tragedy of Macbeth.

Una pièce cinematografica

Coen attraverso la propria impronta stilistica preserva l’esperienza teatrale di questo dramma sanguinoso attingendo però alle influenze dell’espressionismo tedesco cinematografico. Per fare questo si affida alla casa di produzione A24 che da sempre presenta un catalogo di opere dalla marcata virtù autoriale.

Con un finale velatamente aperto e la presenza costante di simbologie e figure metaforiche, il dramma shakespeariano assume una valenza onirica che sfiora il sublime. L’utilizzo di un bianco e nero definito, geometrico e architettonico aumenta la sensazione di drammaticità rendendo ancora più intense le scenografie e di conseguenza sottolinenando la pesantezza dei movimenti che compiono i personaggi in questi ambienti solenni. Fondamentale il lavoro di scenografi, truccatori e costumisti: i set e i costumi utilizzati durante le riprese sono stati realizzati in bianco e nero al fine di introdurre una sorta di astrazione e quindi un maggiore distacco con la realtà materiale.

Prevalentemente scarni e caratterizzati da forti contrasti chiaroscurali, i diversi quadri che si susseguono nella narrazione sembrano far parte di una pièce teatrale grazie anche alle numerose dissolvenze presenti tra una scena e l’altra paragonabili allo scorrimento di un sipario. Anche la scelta del formato assume un fine ben preciso, in quanto l’Academy Ratio (introdotto con l’avvento del cinema sonoro) ricorda le proporzioni di un boccascena teatrale.

I personaggi sono spesso mostrati attraverso dei campi lungi o medi facendo percepire gli ambienti in cui essi si muovono ancora più imponenti di quanto già non siano: le stanze del castello di Macbeth, la foresta di Birnam e le terre desolate attorniate da una fitta nebbia bianca delineano solennemente le inquadrature, senza mai oscurare la grandiosità dei personaggi. Secondo il regista infatti la vicenda non si svolge in nessun luogo fisico specifico, poiché in realtà tutto avviene nella mente dei personaggi e nella loro realtà psicologica.

Il peso della parola

Limitati e ridotti all’essenziale i movimenti in scena lasciano posto agli imponenti dialoghi e soliloqui che ricalcano perfettamente quelli scritti da Shakespeare divenendo melodia. È la parola ad assumere un importante valore drammaturgico. Essa delinea le complessità dei personaggi donando loro una solennità che subisce un cambiamento lento ma continuo causato dalla pazzia intrinseca e dalla insaziabile brama di potere.

La colonna sonora di Carter Burwell dona ritmo alla narrazione accompagnando i deliri dei protagonisti scandendone le ricadute. Particolarmente interessante la scelta di inserire rumori che vanno ad arricchire il paesaggio sonoro divenendo leitmotiv dello stato psicologico dei personaggi.

Tra cinema e realtà

La prova attoriale dell’intero cast composto da attori come Denzel Washington, Frances McDormand, Harry Melling e Kathryn Hunter si combinano maestosamente con lo stile di Coen e il racconto del Bardo regalando delle interpretazioni dall’intensa tragicità mista a dolore e delirio. Le figure di Macbeth e della moglie – interpretate dagli attori più anziani del cast – trasmettono un senso di afflizione molto potente ed incisivo quasi come se si creasse un’identificazione tra attore e personaggio: per entrambi si rivela essere un “ultimo tentativo di gloria”.

La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla.

Nota di merito quindi per Joel Coen il quale ha dimostrato in maniera eccelsa come si realizza un film in bianco e nero. Questa scelta stilistica si rivela particolarmente ardua in quanto girare un film senza avere a disposizione l’intera gamma cromatica complica radicalmente la resa espressiva. Sia il regista che gli attori devono compiere scelte stilistiche e recitative molto più complesse rispetto ad un film girato a colori.

Molto più semplice far sembrare incisiva un’inquadratura a colori rispetto al bianco e nero. Le immagini in bianco e nero devono tenere conto di aspetti legati all’equilibrio tra luce e ombre, mentre il colore gioca con sfumature e tonalità trasmettendo emozioni in modo più istantaneo.

Nonostante ciò ne è valsa la pena? Assolutamente sì.

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