“Vita da Carlo”, il riflesso introspettivo dell’ultimo Verdone

28Altro giro, altra corsa, altro Carlo Verdone. L’attore e regista romano torna protagonista in una serie di dieci episodi distribuita da Amazon Prime Video, in cui mette sotto le luci della ribalta un frammento romanzato della propria vita. Quotidianità e finzione scenica si intrecciano in un inedito esperimento,  che porta Verdone ad esplorare una nuova espressione multimediale con la sua verve ed il suo stile inconfondibile. Non avremo più a che fare con Furio, Ivano o Mimmo bensì solo ed esclusivamente con Carlo, che senza timori sembra voler mostrare, come mai prima d’ora, le proprie fragilità ed incertezze, sia sotto l’aspetto esistenziale che sotto quello artistico. Tuttavia questa sua nuova visione, che  si configura come l’evoluzione definitiva del suo cinema ormai in trasformazione da anni, avrà riscosso successo  tra gli spettatori ed i fan di lunga data?

I mille pensieri della vita di Verdone

Vita da Carlo ci proietta all’interno della dimensione giornaliera della vita di Verdone. Il rapporto con i figli e con i normali, ma sempre presenti, piccoli problemi familiari si scontra con il tentativo di creare un qualcosa di artisticamente nuovo per il regista. Carlo vuole arricchire il suo percorso cinematografico con un nuovo film intitolato “L’intreccio delle ombre”, scritto a quattro mani con Lucio, uno sceneggiatore politicamente impegnato. La trama di quest’opera ruota attorno ad un amore proibito e ad una fuga che coinvolge due pazienti di un manicomio. Chiaramente il genere del lungometraggio esula dal repertorio classico del regista romano e questo non piace al produttore Ovidio con il quale Verdone si trova legato ancora da un anno di contratto. Ovidio è la catena che lega Carlo al suo passato, ai suoi celeberrimi personaggi che vuole siano riportati sul grande schermo in un discutibile remake dal nome “Lo famo anziano”.

Alle tribolazioni dell’arte si aggiunge poi l’imprevedibile svolta politica del suo personaggio pubblico. Verdone ama Roma e Roma ama Verdone. La sua semplicità e genuinità è sempre stata riconosciuta con affetto dai romani, che hanno visto nel regista, sin dagli albori, un cantore del popolo. Questa sua veste, a seguito di un imprevisto discorso di piazza in difesa della città eterna, emerge con prepotenza sui social in un periodo di profondo dissenso politico da parte dei cittadini nei confronti dell’amministrazione pubblica della capitale. La soluzione a tutti appare evidente. È ora che Carlo Verdone diventi sindaco di Roma. Nessuno più di lui merita quella carica. Eppure la situazione inevitabilmente appare da subito come grottesca. Cosa vede Verdone nel proprio futuro appare sempre più come un rebus senza risposta ed il film che desidera ardentemente fare pare assumere le forme di un’utopia.

La famiglia che non funziona

Vita da Carlo è una serie altalenante, che alterna idee interessanti e spunti innovativi ad un insieme di elementi stonati che rendono poco chiare le intenzioni del regista. Uno di questi è sicuramente la sfera familiare. Le dinamiche tra Carlo ed i suoi figli, sorvolando sulla recitazione tutto fuorché straordinaria degli interpreti di Maddalena e Giovanni, risultano farraginose e quasi da soap opera. Persino la fotografia quando ci si trova all’interno delle mura domestiche pare subire un downgrade ed accompagna intrecci amorosi per nulla coinvolgenti, che non arricchiscono in alcun modo l’indagine personale dell’artista protagonista.  L’amore per la farmacista Annalisa, l’amicizia con Max Tortora, seguono linee narrative troppo stereotipate e legate a quel tipo di commedia dal quale lo stesso Verdone sembra voler prendere le distanze nei propri discorsi. Porta con sé un instante di freschezza la figura di Chicco, ex spiantato della figlia Maddalena, la cui vita senza punti riferimento sembra poter illuminare le nebbie esistenziali in cui si aggira la mente di Carlo.

La fuga dai propri personaggi

Quando entriamo nel discorso “Cinema”, le cose si fanno decisamente più interessanti. Ciò a cui assistiamo è un grande monologo interiore che Carlo Verdone esteriorizza mediante una serie di dialoghi con i suoi vecchi fan, con il proprio ottuso produttore e con sé stesso. Verdone riconosce il cambiamento dei propri ultimi lavori e cerca di far capire a parole ciò che forse agli spettatori non è arrivato in questi anni. La ricerca di un cinema più maturo, di un distacco da quelle maschere che gli hanno dato la fama ma che ora lo imprigionano in una serie di corpi artistici in cui lo stesso regista si sente fuori luogo. La malinconia, che nelle prime opere era celata in bella mostra, ora emerge e vuole essere al centro di ciò che colui che è dietro la macchina da presa vuole comunicare.

La regia di determinate scene personali, al contrario di quanto detto in precedenza per le sequenze familiari, appare particolarmente accurata . Inquadrature ricercate accompagnano discorsi interiori riguardo il concetto stesso di arte e di decadenza a cui si sottopone quest’ultima e con essa la città di Roma. Il dialogo a tarda notte con Alessandro Haber, nella sua assurdità, delinea quello che sarebbe dovuto essere il tono effettivo della serie per tutta la sua durata e che purtroppo non si è riuscito a mantenere. La smania talvolta della risata facile, o dell’atmosfera scanzonata, allontana di due passi Verdone dal suo obiettivo, ogniqualvolta questi riesce ad avvicinarcisi di uno. Il manifesto desiderio di creare un’opera dal carattere maggiormente introspettivo, non sembra trovare pienamente riscontro nella realtà dei fatti.

La linea narrativa che coinvolge Roma funziona fin quando la città appare come un’estensione della psicologia dell’artista, ma si perde in un nulla di fatto quando ci si abbandona all’assurdità della corsa alla carica di sindaco. L’aspetto politico come pretesto comico diviene ben presto ridondante e non contribuisce alla fluidità dell’opera. La pressione esterna che schiaccia l’estro artistico di Verdone emerge nei monologhi sulla terrazza con un taglio autoriale degno di nota, eppure svanisce nel fumo della sigaretta dello stesso Carlo non appena avviene il successivo cambio di scena.

La paura di non essere capito

La sensazione che si ha nel guardare con attenzione Vita da Carlo è quella di trovarsi dinnanzi ad un’opera incompiuta. Appare evidente la maturazione del regista a livello di ricerca delle tematiche da affrontare, ma allo stesso tempo si percepisce come il timore di fallire, di deludere. Nel rapporto con Erminia, la fan di Verdone malata terminale, è racchiusa tutta l’essenza ed il pensiero dietro la serie. Il messaggio malinconico appare evidente, come tale è anche l’ormai indissolubile legame con il passato che sarà per sempre croce e delizia di Carlo Verdone. All’interno della serie si ritrovano citazioni a Borotalco, Troppo forte, C’era un cinese in coma e tante altre opere divenute iconiche, che strappano una mai banale risata, ma che forse allontanano Verdone dalla agognata emancipazione da sé stesso.

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