Il 2022 è iniziato e, come il recente passato ci ha ormai abituato, sembra per ora portare con sé più domande che risposte. Oltre a quelle legate alle più disparate crisi contingenti (Presidente della Repubblica, emergenza climatica, PNRR… solo per citarne alcune), quella più evidente e in risalto nel dibattito pubblico resta la crisi sanitaria legata alla pandemia. Quasi due anni esatti fa, il 31 gennaio del 2020, il governo dichiarava ufficialmente lo “stato d’emergenza“, l’ormai tristemente noto strumento legislativo che conferisce al governo stesso poteri speciali, tra cui la, a suo tempo tanto discussa, possibilità di varare decreti legge da parte del Presidente del Consiglio (gli arcinoti Dpcm) senza necessariamente passare dall’approvazione parlamentare.
Lo Stato d’emergenza
Regolato dalla legge numero 225 del 1992, e successivamente modificato e regolato dal decreto legislativo 59 del 2012, questa misura straordinaria è stata originariamente prevista per emergenze di natura bellica. Solo con la modifica di nove anni fa si arrivò a estendere questa misura a più generiche “calamità naturali o connesse all’attività dell’uomo”, che richiedano una serie di interventi straordinari coordinati tra il governo, i suoi rappresentanti sul territorio ed eventualmente altri enti, prima fra tutti la Protezione Civile. Lo stato di emergenza ha durata di novanta giorni, estendibile di ulteriori sessanta previa approvazione del Consiglio dei ministri, di regola una sola volta. Come ben sappiamo, però, attraverso l’approvazione parlamentare è possibile prorogarlo di volta in volta fino all’esaurirsi dell’emergenza in questione.
Nonostante i diversi dibattiti occorsi a suo tempo, oggi la maggior parte dei giuristi e costituzionalisti concorda dunque sulla piena legittimità di tale strumento applicato alla situazione odierna. Sarebbe del resto stato impossibile, senza di esso, imporre tanto il lockdown generalizzato di inizio 2020, quanto quelli locali legati al sistema di colorazione delle regioni. Rientrano negli interventi legittimati da questo strumento anche l’obbligo di mascherina (sia all’aperto che in luoghi chiusi), l’utilizzo dell’app Immuni, l’obbligatorietà della quarantena per i positivi al Covid-19 e il controllo (nonché la legittimità stessa) del Green Pass: tutte misure di fatto limitanti le libertà personali garantite dalla Costituzione, ma temporaneamente sospendibili in virtù di poche situazioni-limite. Tra queste le principali (riconosciute dalla stessa Costituzione) sono le emergenze di natura sanitaria. Fintanto che sussiste uno stato di emergenza è legittima e costituzionale anche l’eventuale imposizione della vaccinazione, che per ora è stata messa in campo solo per gli over-50.
I dibattiti erano prevedibili: sebbene sia stato dichiarato in altre circostanze nella storia della Repubblica, lo stato d’emergenza non è mai stato prorogato per un tempo così lungo, e certo non aveva mai portato a limitazioni così estese. Interessante notare come la sua natura intrinsecamente e implicitamente legata a scenari di natura bellica abbiano condizionato la retorica pubblica al momento della sua messa in campo: è altamente probabile che vadano letti in questa chiave i vari interventi in cui si paragona l’emergenza sanitaria, con un’abile metafora, a una “guerra contro il virus”.
Tutela collettiva o individuale?
A livello legislativo, dunque, sembra che ogni mossa attuata dal governo (o, più precisamente, dai governi, Conte II e Draghi) finora sia in piena regola. Oggi però assistiamo a degli sviluppi destinati a far discutere ulteriormente: è stato imposto l’obbligo vaccinale agli over 50 e molti ritengono che in futuro questo potrà essere esteso anche a diverse fasce di popolazione. Si entra ancora una volta in una vera e propria zona grigia dello stato di diritto: entro quale limite un governo democratico può imporre limitazioni alle libertà personali nel nome della sicurezza collettiva?
Il vaccino, ogni studio accreditato e riconosciuto ad oggi ce lo conferma, è efficace. Pfizer, Moderna, persino il discusso AstraZeneca, hanno contribuito a salvare verosimilmente milioni di vite, in tutto l’Occidente vaccinato – ben diverso il discorso tra i Paesi ancora in attesa delle dosi promesse, ma questo è un altro discorso. Resta però una significativa fetta di popolazione che ne mette in dubbio efficacia e sicurezza a lungo termine, per non citare chi lo stronca ascrivendolo ai più disparati complotti globali – quelli che noi siamo abituati a sentir chiamare “no vax”, per intenderci. I governi lo sanno: cercare di raggiungere un’immunità generalizzata figlia del vaccino resterà un’utopia finché tanti rifiuteranno di vaccinarsi. È proprio in quest’ottica che si sono mossi con varie limitazioni e “incentivi” alla vaccinazione, di cui l’esempio massimo è probabilmente rappresentato dai Green Pass che ben conosciamo.
Nonostante i dibattiti ancora in corso, la maggior parte dei giuristi e costituzionalisti nel nostro Paese è sostanzialmente concorde: l’obbligo vaccinale non è una misura illegittima. Avvalendosi dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e del gioco di equilibrio presente nella maggior parte delle interpretazioni costituzionali tra il diritto all’autodeterminazione del singolo e quello alla salute e benessere collettivo, risulta di fatto legittimo imporre sanzioni amministrative a chiunque rifiuti di adempiere a una norma volta a tutelare quest’ultimo. Questo avviene perché la nostra Costituzione – così come la succitata Convenzione – sono basate sul principio che i diritti della collettività prevalgano in ultima analisi, in assenza di alternative legali, su quelli del singolo individuo, considerabili recessivi.
Foucault e l’obbligo vaccinale
Una riflessione interessante sul tema, che esuli dall’ambito prettamente giuridico, ce la fornisce il filosofo francese Michel Foucault. A partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento, Foucault iniziò a definire il concetto di biopolitica interno al dibattito filosofico: si tratta, secondo Foucault, del terreno su cui sono agenti pratiche attraverso le quali le reti di potere gestiscono le discipline del corpo. Una vera e propria area d’incontro tra potere e sfera della vita. Trattasi di un fenomeno che di fatto inverte gli antichi rapporti di potere: se un tempo il potere politico era diritto di morte, oggi piuttosto è quello che garantisce la vita.
Quale sarà, allora, il criterio per calcolare il costo di produzione della libertà? Sarà, naturalmente, la cosiddetta sicurezza. Il che significa che il liberalismo si troverà costretto a determinare entro quali limiti l’interesse individuale […] possa diventare un pericolo per l’interesse di tutti. […] La libertà e la sicurezza: il rapporto tra libertà e sicurezza è il centro propulsore di questa nuova ragione di governo.
(Michel Foucault, in una lezione tenuta al Collège de France il 24 Gennaio 1979)
La compenetrazione di due sfere tanto separate (alla quale hanno concorso diverse scienze e discipline, tratteggiando le linee di una presunta “normalità” contrapposta al “patologico”) avrebbe portato a una serie di degenerazioni che plasmano la società contemporanea, dove il termine “biopolitica” si smarca da Foucault verso nuove interpretazioni più attuali. Ma oggi, mentre assistiamo a una sorta di gioco del Taboo (“Dimmi che renderai obbligatorio vaccinarsi senza dirmi la parola ‘obbligo'”), molti potrebbero -anche se pochi lo fanno – rispolverare Foucault: si tratta, direbbe forse il francese, di una forma compiuta di biopolitica, dove il potere la fa da padrone anche sulla vita dell’individuo? O si tratta piuttosto di un sacrificio necessario da parte di ogni individuo in favore della collettività, a prescindere dai rapporti politici?
L’eredità del Covid
Più probabilmente entrambe le affermazioni contengono una certa dose di verità e il distinguo sta intrinsecamente in dove cada la linea di demarcazione tra libertà individuale e collettiva. È evidente che ad oggi i vaccini siano il principale – per non dire l’unico – strumento a nostra disposizione per poter superare la pandemia. Superare la pandemia significa a sua volta tutelare la vita di migliaia di persone, riconquistare libertà fondamentali ancora oggi messe in disparte e frenare il declino economico di milioni di famiglie nel mondo. In questo senso, più che una libera scelta, quello di vaccinarsi si configura come un dovere morale collettivo, senza se e senza ma.
Tuttavia, è scritto nella natura umana che ci sia una fetta di popolazione che rifiuti questa decisione, per ragioni che spazino da un fanatico complottismo al semplice scetticismo che, in fin dei conti, è alla base di quella stessa ricerca scientifica che ci ha regalato il vaccino. Ed è proprio da qui che scaturisce la sfida principale per le classi dirigenti di tutto il mondo: come gestire un simile dissenso spesso molto diffuso? Con una tolleranza che rischia però di compromettere l’efficacia dell’intera campagna vaccinale o con un’autorità che va a ledere i più basilari principi dello stato di diritto?
La domanda è cruciale, e con essa la risposta che verrà trovata nei diversi contesti. Sarà opportuno vigilare perché dall’una e dall’altra risposta si potranno eventualmente intuire molte cose sullo stato della democrazia oggi e sulla direzione che prenderà domani. Questa sarà, con ogni probabilità, l’ultima grande prova a cui il virus comparso nel 2020 ci sottoporrà. E non sarà affatto banale.
FONTI
Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Michel Foucault, Feltrinelli, 2007
(Reperibile gratuitamente in versione digitale qui)
Un commento su “Obbligo vaccinale: libera scelta individuale o dovere collettivo?”