Lo scorso 23 dicembre, all’età di 87 anni, è venuta a mancare Joan Didion nel suo appartamento a New York. Figura essenziale nel panorama giornalistico e narrativo degli ultimi decenni negli Stati Uniti, con queste parole è stata celebrata dalla sua casa editrice, la Penguin Random House:
Didion era una delle scrittrici più incisive e astute osservatrici degli Stati Uniti. Le sue opere di narrativa e i suoi memoir hanno ricevuto numerosi riconoscimenti e sono considerati classici moderni.
Ed effettivamente, quella capacità di osservare lucidamente il mondo esterno – e dunque il panorama americano – e quello interiore l’ha resa una delle più preziose figure contemporanee.
Joan Didion: una vita destinata alla scrittura
L’astro luminoso di Didion non è tardato a manifestarsi sin dalla gioventù: laureata nel 1956 in Lettere all’Università di Berkeley, a soli 21 anni vince un concorso di saggistica per il mensile «Vogue», del quale cui in seguito diventa copywriter e poi redattrice.
Dopo essersi sposata con lo sceneggiatore John Dunne nel 1968 lascia New York, sede del suo lavoro a «Vogue», per recarsi in California. Qui entra in contatto con la realtà della Summer of love californiana, lo scenario hippie di sperimentazione e di libertà dai costumi benpensanti del tempo.
Verso Betlemme e The White Album
La penna di Didion inizia quindi a cogliere perfettamente, e in modo del tutto personale, il clima dei tempi raccontati; le due raccolte di alcuni dei suoi più importanti articoli, Verso Betlemme (1968) e The White Album (1979) sono la testimonianza della personalità giornalistica dell’autrice.
Ed è tramite le due opere che Joan Didion si annovera tra le penne simbolo del cosiddetto New Journalism. Attraverso gli articoli raggruppati nei due volumi, racconta esperienze personali più disparate, ma al tempo stesso identifica i simboli di quei tempi. Raccontando personaggi come Howard Hughes e Jim Morrison attraverso documenti dallo spiccato punto di vista autoriale, il giornalismo di Didion in Verso Betlemme e The White Album è intriso della sua personalità giornalistica.
Nuovo modo di raccontare i fatti: il New Journalism
Questa modalità di racconto giornalistico ha caratterizzato numerosi professionisti della sua generazione. A dare una definizione univoca di un nuovo modo di comunicare la notizia è Tom Wolfe nel 1973, intitolando la raccolta dei suoi lavori New Journalism.
Con New Journalism si riferisce al nuovo modo di fare giornalismo che si fonda su una commistione tra scrittura letteraria e scrittura professionale. I fatti raccontati, inevitabilmente, sono intrisi della personalità giornalistica che vi è dietro e di una struttura narrativa. Il racconto giornalistico, dunque, è realizzato attraverso l’utilizzo di un linguaggio narrativo di fatti reali; sono gli anni del boom del reportage, che mescola elementi obiettivi a uno stile specifico caratterizzante del giornalista.
Wolfe, Truman Capote con A sangue freddo, Norman Mailer sono tra i massimi rappresentanti. Così sentenzia Wolfe a riguardo di questa nuova ondata culturale: “La miglior letteratura prodotta oggi in America è la saggistica”.
E così lo stesso Wolfe colloca Didion all’interno di tale movimento:
Joan Didion non si considera principalmente una giornalista, ma la sua raccolta di articoli intitolata “Verso Betlemme” ne ha consacrato l’ascesa come New Journalist nel 1968. Si ritiene troppo timida per essere una buona giornalista, ma i fotografi con cui ha lavorato dicono che a volte questa timidezza rende i suoi intervistati talmente nervosi da fargli rivelare cose inaspettate solo per colmare gli imbarazzanti vuoti della conversazione.
Joan Didion narratrice
Oltre a essere nota per la sua dirompente carriera giornalistica, Joan Didion si dedica anche alla scrittura creativa nella sua forma più pura: il romanzo. Tuttavia, lo fa senza mia allontanarsi dalla sua verve osservatrice e analitica da giornalista: degli Stati Uniti negli anni ’50 in Run River (1961), della Guerra Fredda e dei suoi strascichi negli anni ’80 ne Il suo ultimo desiderio (1996).
L’arte di raccontare il tragico della (sua) vita
Come una perfetta New Journalist, Joan Didion racconta incisivamente anche di se stessa, epicentro di alcuni dei suoi più celebri scritti. La sua autobiografia Da dove vengo (2003) è senz’altro la dimostrazione del legame profondo, oltre che critico, che ha con il suo Paese. Attraverso questo volume racconta la sua storia, la sua Terra, facendo – volutamente – trasparire di quanto spesso non ha capito la California. Attraverso questa narrazione torna indietro nel tempo della sua vita, in un’esplorazione dello spazio e del suo vissuto, quindi di sé.
Ma è con L’anno del pensiero magico (2004) e Blue nights (2011) che esplora il dramma della vita umana con la lucidità giornalistica che la caratterizza.
Tra il 2003 e il 2005 Didion ha dovuto affrontare un doppio lutto. Tutto inizia quando la figlia Quintana Roo va in coma per uno shock settico risultato di una polmonite. In una di quelle tetre sere al ritorno dell’ospedale, il marito John muore di colpo per un infarto. Nel 2005, per la sua compromessa salute, anche Quintana morirà per una complicazione dovuta alla pancreatite.
Dalla tragica esperienza di vita, Joan Didion scrive due memoir sulla perdita, raccontando lucidamente cosa accade con due lutti così importanti.
Analizzare il lutto: L’anno del pensiero magico
La vita cambia in fretta.
La vita cambia in un istante.
Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita.
Il problema dell’autocommiserazione.
È così che inizia L’anno del pensiero magico. È un memoir che va dritto al punto, raccontato senza una morbida soluzione di continuità con il resto della sua vita; perché come affermano queste parole poste all’inizio del volume, “la vita cambia in fretta e non dà nemmeno il tempo per capirlo“.
La vita cambia in un istante.
Un normale istante.
È il concetto di normalità che impedisce a Joan Didion di interiorizzare e metabolizzare subito ciò che è successo: a un tratto, nella normalità di una situazione complicata, la morte irrompe e cambia la vita per sempre. E Joan Didion è chirurgica anche nel racconto del suo dolore, nel tentativo di metabolizzarlo ed esorcizzarlo; lo fa con l’approccio lucido ma anche narrativo che ha caratterizzato il suo lavoro fino a ora.
Il pensiero magico, analizzato, assorbito e superato da lei, è quell’illusione di poter fermare chi se n’è andato; ma Didion nel corso del suo libro, immergendosi profondamente nell’analisi del lutto e dell’assenza, intuisce quanto occorre liberare dalla presa dei ricordi coloro che l’hanno lasciata, e vivere le possibilità del presente senza rifugiarsi nei rimpianti del passato.
Da questo volume emerge una capacità innata di Joan Didion: quella di passare con agilità dal personale all’universale, dall’universale al personale, dal racconto intimo a un’analisi rigorosa di ciò che succede, senza mai perdersi e allontanarsi da se stessi. E lo fa nei confronti dell’entità della vita stessa, dei suoi imprevisti e della sua conclusione, il sostrato universale per eccellenza tra gli esseri viventi.
Disseziona lucidamente nella sua carriera da giornalista e con la sua stessa vita, dal suo passato alle sue più grandi paure, a volte anche con conseguenze prive di soluzioni consolatorie, come con Blue nights.
Joan Didion è stata proprio questo: una personalità giornalistica e letteraria coraggiosa. E verrà per sempre ricordata non solo dagli Stati uniti, ma dal mondo intero come una scrittrice coraggiosa, capace di toccare il cuore di ciò di cui scrive senza averne paura.
Fonti
J. Didion, L’anno del pensiero magico, Il Saggiatore, 2021.
J. Didion, Verso Betlemme, Il Saggiatore, 2008.
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