Pubblicato nel 2019 da Fandango Libri, Febbre è il romanzo di esordio di Jonathan Bazzi. Lodato dalla critica, ha permesso al giovane autore di entrare nell’olimpo degli scrittori italiani contemporanei più popolari degli ultimi anni. Il libro in questione, infatti, vanta di essere stato finalista del Premio Strega 2020 e vincitore del Premio Libro dell’anno 2019 di Fahrenheit Radio Rai Tre e del Premio Bagutta Opera Prima. Come è divenuto un caso letterario? L’assoluta verità dei fatti, nei contenuti e nelle parole.
Un libro personale, per davvero
Febbre, forse, potrebbe non essere considerato un romanzo: esso è il racconto lucido della vita dell’autore.
Classe 1985, Jonathan Bazzi nasce e cresce a Rozzano, in periferia sud-ovest di Milano, tra le case popolari. La miseria, la periferia, una situazione familiare complessa sono le corrosive fondamenta del suo divenire adulto. Da un lato l’autore vive l’impossibilità di andare oltre il grigiore della periferia, dall’altro invece sono le sue peculiarità e la sua omosessualità a rendere difficile la sua crescita.
Poi, la malattia. Nel 2016 Jonathan scopre di aver contratto l’HIV e reagisce a tale scoperta con un turbine di emozioni negative. Il suo corpo diviene un ambiente infetto che desta ogni genere di preoccupazione – reale e non – in un ciclo da cui non riesce a uscire.
La sua difficile crescita e la lotta nell’accettare la malattia sono i due piani narrativi della storia: da un lato il passato, in un viaggio tra gli anni Novanta e i Duemila; dall’altro il presente, con uno squarcio che interrompe una moderata vita adulta.
Essere ultimi: Jonathan Bazzi e la vita di periferia
Un personaggio quasi parlante, assolutamente protagonista, è la periferia. Incarnata nella cittadina di Rozzano, la periferia milanese ingloba la vita del protagonista e della sua famiglia.
L’autore non si risparmia a raccontarla senza edulcorarla, un posto in cui si fa talmente tanta fatica nel mantenere vivo il presente che è impossibile pensare al futuro.
Poco meno di 43.000 abitanti a Rozzano, stretti a ridosso della tangenziale Ovest. Il Bronx del Nord: il paese dei tossici, degli operai, degli spacciatori. I tamarri, i delinquenti, la gente seguita dagli assistenti sociali. È vero? È falso? Che altro?
Per un giovanissimo sensibile, colto e omosessuale come Jonathan, Milano è un sogno. Rozzano, al contrario, è criminalità e sopravvivenza. Rozzano è nelle litigate furibonde tra sua madre e suo padre, diventati genitori poco più che ragazzini e separati troppo presto. Rozzano è in sua nonna materna, emigrata da Napoli, con la nostalgia della sua terra tra i palazzoni cupi della periferia.
Rozzano è soprattutto grettezza mentale, è ancoraggio ai valori machisti della violenza e della sopraffazione, valori a cui Jonathan non può e non vuole aderire e che vede sfumare attraverso il susseguirsi delle figure tossiche dei compagni di sua madre, o attraverso l’egoismo e l’irresponsabilità del padre.
In un mondo dove è richiesto alla figura maschile una prepotenza di cui Jonathan è privo, egli vive la sua infanzia e adolescenza come un ultimo tra gli ultimi, isolato tra i dimenticati.
Rozzano mi odia.
Rozzano l’ho odiata.
Perché sono nato lì? Io che leggo, scrivo, disegno, Io che sono il più amato dai professori.
Perché proprio a me?
Io con voi analfabeti, io non c’entro niente.
Eppure a Rozzano ci sei nato e cresciuto.
Rassegnati: sei uno di noi.
Essere ultimi: la sessualità, il corpo
Nella periferia milanese non sembra esserci riscatto per la propria situazione, e per Jonathan neppure per la sua diversità. Fin da bambino gioca con le bambole e a fare le pozioni, è attratto da tutto l’intrattenimento per bambine, vuole bene segretamente a un suo compagno di classe. Jonathan è gay e l’ha sempre saputo, fin da bambino, per cui non gli è stato mai risparmiato alcun epiteto poco edificante.
Il rapporto con la sua sessualità, particolarmente negli anni post-adolescenziali, viene sottomesso alla sua scarsa autostima. Il corpo, così, diventa protagonista nei rapporti con gli altri, e deve essere sottomesso, distrutto, annientato. Per un lungo tratto del suo racconto, il sesso non ha niente a che vedere con l’amore, ma diventa un’arma di soddisfazione masochista dato dal fatto che – semplicemente – non riesce ad amarsi.
Un rapporto complesso che l’autore descrive con potenza, in modo netto e carnale, facendo immedesimare il lettore nella fisicità del suo vissuto sessuale.
Il marchio della febbre
E il corpo, infine, diventa il tempio del virus, dell’HIV. Tutto inizia con una febbre, poche linee anomale sul termometro. Inizia un percorso di esplorazione del corpo, che diventa oggetto di visite e paranoie, morbose attenzioni, ipocondrie e malesseri. Questa febbre è il marchio della diversità di Jonathan, di una malattia che rappresenta una dimensione di discriminazione, sebbene nel corso degli anni si sia spogliata degli stereotipi nati nel periodo della sua scoperta.
Il virus oltre che reale è un elemento simbolico della sua esistenza, di lasciti emotivi e insicurezze: esso diventa ansia e paranoia, la dimensione psicologica della malattia ingloba l’intera vita.
Jonathan Bazzi: essere millennial
Questo simbolo della diversità in un mondo costruito solo per un certo tipo di uomini non può che essere definito un manifesto di un nuovo modo di vivere se stessi e i ruoli di genere; un modello di vita che, condannato e ghettizzato dalle vecchie generazioni, è sintesi della gioventù di oggi.
La storia è intrisa di elementi generazionali. Dai cartoni animati degli anni Novanta alla passione per i tarocchi in pieno stile New Age fino ai primi appuntamenti online, il racconto della vita di Jonathan Bazzi è quello di numerosissimi millennials. Molte volte persi, in contrasto con i genitori e i nonni, introversi e liquidi nella realtà virtuale in cui vivono, i lettori nati tra gli anni Ottanta e Novanta non possono non riconoscersi in quei ricordi collettivi.
Un rapporto di riconoscimento che cresce con la verità della lettura: il protagonista permette al lettore di entrare tra gli sparsi frammenti della sua vita senza i veli del perbenismo, senza sconti, nelle fragilità e nelle vergogne, nei dolori e nelle piccole gioie.
Un manifesto oltre i pregiudizi
Lo stile netto e lucido, privo di virtuosismi, esprime in modo potente l’ardua impresa dell’essere diversi. Per questi motivi il racconto di Bazzi è un racconto utile: è una storia che narra sapendo che potrebbe non piacere, che potrebbe scandalizzare anche solo perché è raccontata. Perché, come lui stesso ammette sul finire del volume, solo dando voci alle proprie diversità si può uscire da un clima che chiude gli occhi ai diritti di tutti:
Davanti al pregiudizio alzare la posta: Meglio tacere?
Lo sapranno anche i muri.
E solo mostrandosi senza veli che tutto ciò che è disturbante, informe, diverso agli occhi degli altri diventa normale.
Giustizia è che almeno tutti sappiano la verità.
Storie proibite, storie non permesse – trovare il coraggio di una riscrittura.
Allungo la mano, riempio la tasca del giubbotto.
A destra non c’è, sarà a sinistra?
Incontro il fazzoletto in cui è avvolta.
La sfilo, risalgo,
Apro le dita,
Rosa pallido su tovaglia bianca.
Non ci fa caso nessuno.
Con Febbre, Jonathan Bazzi racconta una storia che non chiede scusa per quella che è, che ha il coraggio di ribadire l’orgoglio di essere se stessi.
Fonti
J. Bazzi, Febbre, Fandango Libri, 2019
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