Eccentrici, esagerati, stravaganti, d’impatto, e ancora prepotenti e appariscenti: ecco come descrivere gli anni Ottanta. Un decennio da non trascurare.
La moda scoppia di audacia esattamente come i giovani che esprimono, proprio in questi anni, la loro energia e la loro freschezza. Parte proprio dai ragazzi che si affacciano al mondo del lavoro lo stile yuppie. Tailleur, pantaloni a sigaretta, gonne a tubo che profumano d’eleganza, raffinatezza e autorità.
È Giorgio Armani che porta in alto la bandiera del made in Italy con uno sguardo su un presente totalmente nuovo e teso al genderless, allo smussamento delle differenze tra uomo e donna, perfettamente incarnato, anzi intessuto, nella sua giacca destrutturata, morbida, rilassata e informale, che segue silhouette sia maschili che femminili. Così Armani veste gli italiani che iniziano a muovere i loro passi in una neonata “Milano da bere”, moderna, vivace ma superficiale e consumistica.
Anche la crazy Krizia si distingue durante gli anni Ottanta per le forme coraggiose e per i materiali originali, ormai all’apice di una lunga carriera fatta di trasgressioni e successo. E proprio mentre il K de Krizia diventa la fragranza del decennio, nelle discoteche del mondo i giovani ballano a ritmo di musica disco nei dance club che brillano di colori accesi e paillettes. Accecanti i look di Micheal Jackson e leggendari quelli di Diana Ross, soltanto due tra gli artisti più famosi dell’epoca che si incontrano nello Studio 54 di Manhattan, il club più V.I.P. della night-life di New York.
Un’età di sconvolgimento anche per i confini geografici che la moda si dà. Prima degli anni Ottanta erano solo i big four a dominare il fashion system: Milano, Parigi, New York e Londra; ma fin dall’inizio del decennio emergono nuove figure orientali come i giapponesi Yamamoto, Kawakubo e Miyake che spostano l’attenzione di stilisti e critici anche su Tokyo. La triade giapponese mette in discussione le regole di composizione occidentali e propone tagli destrutturati e asimmetrici, assenza di decori e colori austeri.
Ballroom culture
Una mise en abyme rappresentativa degli anni sono le ballroom americane. Queste nascono ufficialmente negli anni Sessanta del Novecento, nel quartiere di Harlem a New York, periodo in cui lo scontro razziale conosce il suo picco. Essere di colore, omosessuali, drag, queer, transgender durante questi anni significa esclusione. Le ball sono l’unico posto sicuro, dove non si giudica nessuno né per il colore della pelle né per l’orientamento sessuale.
Immancabile trinomio: competizione, moda, ex-stravaganza. È proprio all’insegna di questi tre punti che le varie house della Grande Mela si scontrano ogni sera. Giovani e adulti gareggiano contro altre case danzando, sfilando e soprattutto osando, immergendosi in lustrini, paillettes e caleidoscopici lamé, banditi nella vita reale.
Le ballroom offrono uno spaccato perfetto della moda dell’epoca perché è proprio qui che l’energia delle minoranze, la volontà di ribellarsi e di farsi sentire, sono più vibranti. E ancora, è proprio qui che la moda esprime al meglio la sua forza e il suo potere. Moda come sogno, come cultura, come autodeterminazione dell’individuo, moda come arte di vivere, declinata in mille modi diversi in quegli iconici decenni. Per questo è opportuna una breve carrellata sulla moda ‘più ribelle’ del secolo, dagli anni Sessanta fino ad arrivare agli anni Ottanta.
Le rivoluzioni degli anni Settanta e Ottanta
Dopo la psichedelia di Barbara Hulanicki e Mary Quant, tra gli anni Sessanta e Settanta, qualcosa sembra muoversi in una direzione sempre più dirompente. Fantasie, nuovi tessuti, colori esuberanti e sperimentazioni di stili.
Infatti tutto è mosso dalle sottoculture giovanili che insieme a forti ideali portano con sé anche mode e tendenze. Lo stile hippy si caratterizza con i suoi pantaloni a zampa, mantelle etniche, t-shirt dai colori brillanti, grafiche orientali e accessori di piume.
Ma non solo, c’è anche chi osa indossando lo sgambatissimo costume intero che l’attrice Farrah Fawcett lancia proprio in questi anni. Sono questi i decenni in cui i giovani si aprono con coraggio e trasgressione al mondo della moda, e non solo, iniziano a sfoggiare pantaloni svasati in lurex, paillettes, bustini aderenti, spalline imbottite, scegliendo i ‘tessuti principi’ del decennio: lycra, raso e velluto, sintetici ça va sans dire.
Da David Bowie con il suo trucco pesante e le tutine fluo, fino ad arrivare alla nostra Raffaella Carrà con giacche lamé e lunghezze da far rabbrividire le menti più tradizionaliste.
Ma è proprio durante il decennio successivo, gli anni Ottanta, con la crescente influenza dei dance club, che si generano ancora nuove tendenze.
Nasce la vera cultura dance, una New Wavein cui la rottura delle convenzioni parte dalle ballroom. È proprio su quest’onda che si diffonde la cultura gay, fondamentale nella moda.
Lo stile di questa comunità inizia a emergere più prepotentemente: nel corso del decennio si diversifica e, poiché la moda non è altro che lo specchio dell’anima sociale, anch’essa va ad adeguarsi e ad abbracciare tutte le nuove sfumature.
Per esempio, si assiste a una “riappropriazione” della mascolinità “virile” nell’illustratore finlandese Tom of Finland. Nei suoi disegni omoerotici va a definire un nuovo codice estetico: per la prima volta non si accosta l’immagine dell’uomo omosessuale all’idea di effemminatezza. Ciò non vuol dire fare un passo indietro, ma riappropriarsi di una identità maschile, originale e ibrida al tempo stesso.
Gli uomini illustrati da Tom attraverso il potere simbolico dell’abbigliamento (giacca a quadri, stivali da lavoro e giacche in pelle) stanno affermando l’immagine di sé come uomini.
così dice un recensore di una sua mostra tenutasi nel 1980.
I nuovi stili degli anni Ottanta: Mod, Acid House e New Romantic
Negli anni Settanta e Ottanta riaffiora uno stile fattosi strada alla fine degli anni Cinquanta, spopolando nel decennio successivo: lo stile mod. Era nato tra le strade di Londra un nuovo gusto per la musica afro-statunitense che inevitabilmente aveva toccato anche il settore della moda. Il mod revival degli anni Ottanta riporta la contrapposizione di colori, in particolare il bianco e il nero, con accenni di giallo brillante, arancione, rosa, i motivi geometrici basati sulla bandiera inglese, polo e lunghi parka.
Ed ecco che negli Stati Uniti nasce la cultura hip-hop con gioielli in oro, bomber di pelle e felpe sportive over-size. Non si può non citare lo smile, emblema della cultura rave dell’Acid House, che arriva in passerella a Londra nel 1988 stampato sui capi. Infine, la divisa composta da pantaloni da ciclista sopra i collant, scaldamuscoli, body e tipiche bombette.
Vivienne Westwood
Un altro stile nato in questo periodo è il New Romantic ben interpretato dai Duran Duran con le loro camicie bianche fluttuanti, e successivamente con gli abiti che la grande Vivienne Westwood crea per i Bow Wow Wow: pantaloni larghi e stivali scamosciati e piatti in stile pirata. Impegnata nel disegno di costumi storici, la stilista mette a punto una nuova linea di abiti che è alla base della sua prima sfilata, nel 1981, la collezione Pirate ispirata agli abiti settecenteschi.
Giocando con i tagli e le forme, la Westwood si specializza anche nell’utilizzare accessori modellanti come crinoline o imbottiture o corsetti, suoi modelli iconici.
Il suo stile, così d’impatto, rimane tale per tutta la sua carriera. Da ricordare anche la collezione Anglomania, 1993-1994, con cui Vivienne stessa afferma di voler fare una parodia della società inglese nel contesto di una prospettiva classica. Infatti, è con questo intento che ingabbia le modelle in creazioni che sottolineano i fianchi e ne limitano i movimenti sovvertendo del tutto la norma con la biancheria intima all’esterno, sovrapponendo i reggiseni agli abiti.
Immancabili anche le giacche corte con spalle larghe e le bretelle indossate al contrario, chiave dello stile di Steve Strange, il ‘Principe Pavone’ del movimento New Romantic.
Moda come voce
È proprio in questo scenario di contrasti e rivoluzioni, nella moda e non solo, che la ballroom culture tocca il suo apice. Ma perché è così importante la moda in queste performance? La risposta è semplice. La moda parla, con o senza permesso, e fa parlare quelli che il permesso non ce l’hanno.
La società di questo decennio è stata narrata dalla serie Pose, disponibile su Netflix, che ha fatto conoscere la ballroom culture a moltissimi spettatori. Con tre stagioni, dal 2018 al 2020, Pose ha riscosso un grande successo vincendo anche due candidature ai Golden Globe e ben quattro Dorian Awards.
La serie riproduce quelle che erano le problematiche del tempo legate alla comunità LGBTQ e afroamericana Quella che viene riprodotta è una vertiginosa differenza tra il “mondo bianco” dell’alta società che si nutre di apparenza e standard da soddisfare, e il “mondo nero”, inserito in un contesto difficile.
In questo quadro così oppressivo sembrano esserci delle voci che gridano al posto dei protagonisti, voci come il ballo e la moda.
Perché sì, la moda parla. È durante queste poche ore di svago, in cui danzando si sfoggiano abiti e arroganza, che la comunità della ball può farsi sentire ed essere chi nella realtà non potrebbe essere mai. Solo qui un ragazzo può indossare una gonna e dei tacchi alti, una ragazza può indossare un abito da uomo e una donna afroamericana può sentirsi una donna dell’alta società.
I Sapeurs e le Sapeuses
L’abito capace di portarti a vivere in una realtà che non è la tua è un concetto alla base anche della moda dei “dandies del Congo”. Un atto di coraggio, una sfida, è questa l’essenza dei look di donne e uomini del Congo appartenenti alla Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes, letteralmente la Società creatrice di ambienti e persone eleganti, la SAPE.
I Sapeurs nascono nel Congo, una fra le regioni più povere di tutto il continente africano, precisamente negli anni Venti del Novecento, quando giovani più fortunati iniziano ad acquistare capi firmati durante i loro viaggi a Parigi e Londra, tornando in patria con i bauli carichi di abiti lussuosi. Non è per vanità, lo fanno per dimostrare il loro prestigio e la loro dignità sia ai concittadini che ai colonizzatori, ovvero francesi e belgi.
Spendono gli esigui stipendi che guadagnano in completi e scarpe di lusso, specialmente dopo l’indipendenza conquistata nel 1960, quando comincia un vero e proprio culto dello stile. Il Sapeur deve lottare e faticare per conquistarsi la tanto ambita gamme, ovvero il carico di abiti di marca simbolo del suo status.
Nonostante durante gli anni Ottanta i Sapeurs congolesi abbiano rischiato di essere banditi completamente dagli spazi pubblici, la comunità continua a esistere e si riunisce spesso in situazioni molto simili a quelle delle ballroom americane. Anche qui è una battaglia a suon di musica, di danza, di colori e tessuti pregiati.
Un messaggio politico e culturale
I Sapeurs tengono a sottolineare che questa tradizione è molto più di un semplice interesse per abiti costosi. È una tradizione che ha portato alla luce delle ambizioni sartoriali, culturali e politiche condivise.
L’ingrediente fondamentale nei look dei Sapeurs non è soltanto la firma: quella è un mezzo per arrivare al proprio obiettivo, certo, ma ciò che risulta essere fondamentale è il portamento, grazie al quale l’abito assume un’altra dimensione. Papa Wemba, cantante congolese attivo a partire dagli anni Settanta e fiero sostenitore della SAPE, affermava
white people invented the clothes, but we (Africans) make an art of it.
(I bianchi hanno inventato i vestiti, ma noi africani ne abbiamo fatto un’arte).
Una moda che è stata sempre tramandata attraverso linee maschili ma che più tardi si è aperta anche a linee femminili. Così stanno nascendo le Sapeuses, anche loro con messaggi forti e intenti ben precisi comunicati attraverso questo linguaggio. Le donne congolesi con intelligenza utilizzano le stesse ‘armi’ per sfidare il sistema patriarcale.
I look dei dandies congolesi
Eleganti completi colorati, che risaltano ancora di più l’incarnato, accessoriati con papillons, scarpe in vernice e occhiali da sole e, perché no, anche fantasie scozzesi e camicie plissettate.
Altrettanto singolari gli outfit delle donne, anche qui spiccano i contrasti di colori e tessuti, gioielli e calzature lussuose e, come accessorio principale, una self-confidence che ammalia. Perché ricordiamo che alla base del gusto della comunità della SAPE, maschile e femminile, c’è uno stesso intento, ovvero un sovvertimento pacifico delle norme, una volontà che i colori accesi dei loro capi stridano con quelli dell’ambiente congolese.
Non solo si sente la necessità di dimostrare ai Paesi colonizzatori la propria dignità in quanto popolo dotato di vita e tradizioni e storia, ma anche la necessità di farsi valere in quanto donne in una società ancora a misura di uomo.
La Sape è un movimento che continua a evolversi tutt’oggi: i giovani costretti in realtà non del tutto libere usano la moda per muoversi verso una dimensione nuova, moderna e cosmopolita, un modo per varcare i confini della loro regione atterrando in realtà più emancipate.
La moda è superficiale?
A questo punto è naturale chiedersi come la moda possa essere così potente. Ma forse non è la domanda giusta. Anzi, la domanda giusta potrebbe essere quella opposta. Perché ci si stupisce che la moda possa essere così eloquente? Perché la moda non viene considerata, da tutti, come una normale forma di espressione della propria concezione della realtà, così come l’arte figurativa, la musica, l’abilità di scrittura?
La moda è superficialità e apparenza. Questo è quello che la maggior parte della gente pensa. Come mai la moda non sembra essere percepita allo stesso modo da tutti come una forma di esternazione della propria personalità?
Tornando a una figura geniale della storia della moda, Vivienne Westwood afferma:
Puoi esprimere te stesso attraverso gli indumenti. Gli abiti parlano del corpo, esprimono la personalità e le idee. Inoltre, si muovono in maniera dinamica ed esprimono un potenziale. Io creo abiti nella speranza di rompere le convenzioni.
È affascinante poter vedere le molteplici funzioni che la moda ha. È un mezzo per esprimere sé stessi e la propria concezione della realtà. Ma è anche una modalità per scardinare alcune convenzioni sociali ormai ben salde e apparentemente impossibili da smuovere, ed è, ancora, un modo per alzare la voce quando nessuno sembra disposto ad ascoltarla.
Del resto:
La tua vita risulta più interessante se indossi abiti con un’identità.