101958, Parigi. Pierre Cardin e Coco Chanel convincono la modella diciottenne Hanna Karin Blarke Bayer a cambiare nome in Anna Karina. Colei che diventerà nel giro di pochi anni uno dei simboli della Nouvelle Vague francese è solo all’inizio della sua brillante carriera.
Una rivoluzione stilistica
A quel tempo i Cahiers du cinéma erano tra le testate cinematografiche francesi più influenti e prestigiose. Fondata da André Bazin nel 1958 la rivista grazie ai suoi collaboratori reinventò le basi della critica cinematografica moderna. Gli anni sessanta sono stati un periodo molto particolare dal punto di vista delle innovazioni del linguaggio filmico. In questo contesto nasce la Nouvelle Vague, un movimento tanto rivoluzionario quanto breve (durerà solo 5 anni).
La Francia stava vivendo una profonda crisi politica a causa dei contrasti algerini e i registi sfruttarono questa situazione per realizzare pellicole documentarie. La società aveva bisogno di cambiare prospettiva e per questo la nuova generazione si mosse per far sì che il cinema rispecchiasse questo nuovo modo di vivere. I registi della Nouvelle Vague (letteralmente “nuova ondata”) furono i primi ad andare controcorrente rispetto alla cosiddetta tradizione di qualità, in quanto negavano il carattere collettivo di ogni processo di creazione cinematografica e allo stesso tempo misero in secondo piano la sceneggiatura rispetto al modo in cui doveva essere girato un film. Tra questi giovani cineasti – che all’ora erano ancora solamente dei critici – troviamo François Truffaut, Jacques Rivette, Claude Chabrol, Éric Rohmer e Jean-Luc Godard.
Quest’ultimo sarà uno dei maggiori rivoluzionari del cinema moderno il cui obiettivo principale divenne quello di catturare “lo splendore del vero”. No proiettori, solamente riprese dal vero, utilizzo di attori non professionisti, niente copione, esclusivamente camera a mano. Ma non basta, tutti i registi hanno bisogno di una musa e Godard troverà la sua in Anna Karina.
Gli esordi
Tra il 1959 e il 1965 Jean-Luc Godard realizza ben dieci film di cui sei hanno come attrice protagonista Anna Karina. Il primo a consacrare la lunga collaborazione tra la coppia è Le petit soldat del 1960, nonché secondo lungometraggio del regista. Qui Karina affronta il suo primo ruolo in un film dai contenuti prevalentemente politici dopo aver rifiutato una parte – che prevedeva scene di nudo – in À bout de souffle. Le petit soldat esplora pienamente le potenzialità del primo piano grazie al quale il volto diviene il protagonista indiscusso. Ci si sofferma sullo sguardo e di conseguenza sull’attrice che in questo caso rappresenta il volto nuovo di una generazione che si sta muovendo verso un futuro migliore.
L’anno successivo viene realizzato Une femme est une femme in cui l’attrice ha modo di recitare per la prima volta al fianco del giovanissimo Jean Paul Belmondo. André Labarthe, attore molto caro al regista, afferma:
Une femme est une femme è uno dei più bei documentari che io conosca dedicati a una donna, (…) una tappa importante del cinema moderno. È il cinema allo stato puro.
Il film, una commovente commedia sentimentale, racconta le vicende di una giovane spogliarellista desiderosa a tutti i costi di avere un figlio. La pellicola è concepita come se fosse un documentario e sembra celebrare la bellezza dell’attrice danese. L’identificazione di quest’ultima con la protagonista del film è sottolineata dal fatto che in quello stesso periodo in cui si stavano effettuando le riprese Anna Karina aspettava un figlio da Godard, il che rende la sceneggiatura e i dialoghi ancora più realistici al limite del paradossale. I due rimarranno sposati per sette lunghi anni e l’attrice conserverà per lungo tempo un ricordo indelebile del marito.
Nel 1962 la Karina fece un’apparizione nel più famoso ed apprezzato lungometraggio della regista Agnés Varda: il film s’intitola Cléo de 5 à 7 e vanta la presenza in scena anche di Godard stesso in un cameo dal retrogusto comico. Questa sequenza in particolare viene spesso considerata come un cortometraggio a sé stante.
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“Bisogna prestarsi agli altri e donarsi a sé stessi”
Lo stesso anno Godard gira uno dei film più forti della sua carriera, Vivre sa vie: Film en douze tableaux. Le parole del filosofo Montaigne aprono i titoli di testa di uno dei capolavori della Nouvelle Vague. Donarsi a sé stessi è una delle cose più difficili e lo capirà anche la protagonista Nanà, una donna insoddisfatta della sua vita costretta ad intraprendere una carriera nel mondo della prostituzione. Vivre sa vie si concentra sull’individualità e sulla ricerca di sé stessi accompagnata da una forte insoddisfazione personale che inibisce la vita di una donna costretta ad abbandonare il suo sogno. Diviso in 12 quadri introdotti da brevi didascalie il film riprende una struttura già utilizzata da Roberto Rossellini in Francesco, giullare di Dio.
Non solo questo film può essere considerato uno strumento di denuncia sociale ma tecnicamente mostra un cambiamento drastico nel modo in cui è stato girato. Sovvertite le convenzioni del cinema classico americano – che da sempre aveva dettato legge nell’industria cinematografica – l’uso dei piani sequenza, le inquadrature fisse e la musica diventano leitmotiv di un lento declino psicofisico.
Una scelta interessante è quella di riportare in un dialogo tra i due protagonisti le risposte tratte da un’inchiesta giornalistica riguardante la regolamentazione della prostituzione parigina (Dove va la prostituzione? Di Marcel Sacotte). La sequenza risulta particolarmente forte poiché alle parole vengono accostate una serie di immagini reiterate che mostrano la ripetitività del mestiere. Questa pellicola profondamente umana mostra come il linguaggio sia l’unico mezzo per poter vivere e Godard, che ha fatto del linguaggio cinematografico la sua poetica, ne è l’esempio.
L’incontro con la fantascienza
Qualche anno più tardi Anna Karina si lascia trasportare dal genere fantascientifico partecipando ad un progetto tanto audace quanto indimenticabile nella storia del Cinema. Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution è considerato uno dei capostipiti nel suo genere in quanto si presenta come un film che rivoluziona le regole del linguaggio cinematografico giocando spesso con il concetto di tempo. La macchina assume un’importanza fondamentale in quanto diventa una sorta di demiurgo avente il controllo totale sull’umanità. Un viaggio in un futuro distopico che Godard tratteggia attraverso contrasti, inquadrature allucinogene, suoni psichedelici e atmosfere che ricordano i B-movies.
L’elemento fantascientifico, in ultima considerazione, non ha la rilevanza che a tutta prima ci si potrebbe aspettare (…) Il film fotografa quartieri ed interni asettici, impersonali a suggerire una dimensione alienante ed opprimente. La logica che governa la città è frutto del lavorio ininterrotto di un potere cieco, il cervello elettronico che tutto dispone e controlla. L’uomo, in questo universo, è una parte del sistema da riprodurre in serie per l’ordinato funzionamento della macchina.
Il surrealismo
Il secondo film in cui la Karina sposa il colore vede un’ulteriore e proficua collaborazione con Jean Paul Belmondo. In Pierrot le fou (1966) interpreta Marianne, una ragazza che intraprende un viaggio con un uomo appena conosciuto. I due diventano criminali e iniziano a commettere insieme svariati omicidi alla Bonnie and Clyde.
In un ruolo difficoltoso l’attrice riesce a comunicare lo sconforto dato dalla separazione con il marito, una ferita che la accompagnerà ancora per molto tempo. Pierrot le fou è un esperimento che porta agli estremi la discontinuità narrativa attraverso una trama frammentaria e spesso complicata da seguire. Gag, citazioni, immagini estemporanee e addirittura citazioni al genere del musical sono un banco di prova non indifferente per Anna, la quale durante un lungo piano sequenza dovette cantare dal vivo una canzone scritta apposta da Serge Rezvani (Jamais tu ne m’as promis de m’adorer toute la vieche): nonostante le difficoltà riuscì comunque a sostenere il compito affidatole con risultati più che brillanti.
Questa pellicola viene spesso accostata agli esperimenti dadaisti e surrealisti e il processo di scrittura automatica ne è un esempio lampante. Considerata da Freud come l’espressione del subconscio può essere paragonata allo stile godardiano: attraverso i suoi attori restituisce la visione distorta della realtà come se fossero in uno stato di trance.
I caratteri pittorici e la presenza di colori saturi si contrappone al bianco e nero che aveva caratterizzato la sua filmografia fino a quel momento. Le inquadrature che si susseguono ricordano dei quadri astratti in cui Belmondo e Karina danzano trascinati in un vortice senza lieto fine.
Non solo Godard
La carriera di Anna Karina – nonostante il sodalizio prima sentimentale e successivamente lavorativo con Godard – non si limitò a questo: un’altra pellicola fondamentale della sua filmografia è La religieuse del 1966, diretta dal regista Jacques Rivette. La sceneggiatura è tratta da un romanzo di Denis Diderot in cui una giovane donna costretta a prendere i voti contro la sua volontà.
La protagonista diventa il punto di riferimento per tutte le altre ragazze, le quali rigettano su di lei tutte frustrazioni. L’attrice mostra la sua versatilità interpretando un personaggio caratterizzato da un’inettitudine straziante. I gesti, l’intensità degli sguardi, ma soprattutto la concezione dello spazio scenico subiscono inevitabilmente l’influenza del teatro acquisendo un forte valore drammaturgico. Il senso di inquietudine e di precarietà che riesce a trasmettere Karina è estremamente commovente, sottolineato dal persistente sibilo del vento paragonabile alle atmosfere oniriche dei film di Federico Fellini.
Il tramonto di una musa
L’ultimo film della carriera dell’attrice viene girato nel 2003, sedici anni prima della sua scomparsa il 14 dicembre 2019. Made in the U.S.A è l’ultima pellicola diretta da Godard a cui prende parte Anna, anche se più tardi avrà modo di collaborare ancora con molti altri registi prestigiosi come Luchino Visconti (Lo straniero) e Rainer Werner Fassbinder (Roulette cinese).
Anna Karina come altre muse del cinema ha ispirato tantissimi registi segnando la storia del cinema moderno in modo indelebile. Un’icona che con la sua semplicità ha saputo restituire l’immagine di una generazione nuova, ricca di stimoli e voglia di cambiare, proprio come fece il cinema. Questo era solo l’inizio di una rivoluzione stilistica che ha cambiato per sempre il modo di fare cinema.