Nota come defensive architecture, hostile design, unpleasant design, exclusionary design o defensive urban design, l’architettura ostile nella sua forma moderna deriva dalle teorie CPTED acronimo inglese di prevenzione del crimine attraverso la progettazione ambientale, ovvero la progettazione di spazi e marchingegni atta a disincentivare comportamenti ritenuti antisociali o incivili. Alla base di queste teorie troviamo il principio della finestra rotta secondo il quale il degrado urbano e il vandalismo creerebbero una spirale di comportamenti antisociali e criminalità, ma sarebbe altresì possibile, tramite sistemi come la “sorveglianza naturale”, ridurre le attività criminali e migliorare la vivibilità degli spazi urbani.
La deriva e la mallification
Premesso che, ovviamente, la criminalità non piace nessuno, il problema è che questa architettura ostile, più che a prevenire vere attività criminali, sembra mirare a colpire categorie come i senzatetto e i giovani. Infatti, a parte alcune idee singolari e (forse) simpatiche come la vernice idrofoba, quindi urina-riflettente, che rimbalza sulle scarpe del “pubblico urinatore” la sua stessa urina, la maggior parte delle misure tendono a impedire il bivacco, l’applicazione di graffiti e il transito degli skaters.
Iain Borden, storico dell’architettura, suggerisce che si tratti di mallification (quel fenomeno per cui ogni spazio pubblico diventa centro commerciale) e che quindi non sia ben visto occupare lo spazio pubblico se non nelle vesti di consumatori o produttori. Dunque si procede alla marginalizzazione delle fasce disagiate, del sotto-proletariato, dei barboni, insomma, a cui viene negata anche una panchina per dormire, un riparo o un posto per riscaldarsi. Ovvero, è accettabile passeggiare per il centro se si è intenti a comprare dei prodotti, ma non se ci si limita a bighellonare o, ancora peggio, se si cerca un posto per dormire. Emblematiche a tal proposito sono le fioriere disposte (e poi ricollocate, data la loro irregolarità) davanti alle panchine di piazza Haring a Pisa, dall’imprenditore Alessandro Trolese, volte ad impedire la seduta così da scoraggiare comportamenti incivili.
Qualche esempio di architettura ostile
Ma in cosa consiste a livello pratico? Abbiamo, per esempio, le luci: blu (spesso all’interno dei bagni pubblici) per rendere più difficile ai tossicodipendenti l’atto del bucarsi o rosa (come avviene in alcuni quartieri residenziali del Regno Unito) per rendere più evidenti i difetti cutanei degli adolescenti e quindi allontanarli.
Sempre contro le fasce più giovani sono state prese misure acustiche, per così dire, come sparare musica classica a tutto volume (come avviene per esempio a Oakland e a Portland), oppure il dispositivo Mosquito (presente a Trento in piazza santa Maria Maggiore), definito anche scaccia-giovani, che emette un ronzio ad alta frequenza particolarmente fastidioso per i più giovani.
E poi ci sono le più drammatiche misure contro i clochard: sfere o spuntoni, più o meno affilati, disposti sulle scalinate o davanti alle vetrine per impedire che vi ci si sdraino i senzatetto; blocchi di cemento e ringhiere posti sotto i cavalcavia per impedire che questi vi cerchino riparo dalla pioggia; o ancora ostacoli per impedire che si riscaldino con l’aria calda che esce dalle grate.
La fissa per le panchine
Nonostante siano molti e variegati gli oggetti e le tecniche dell’architettura ostile, sembra che la creatività di quest’ultima trovi sfogo principalmente sulle panchine. Sono state trovate, infatti, una serie di creative soluzioni affinché le panchine venissero usate esclusivamente per sedersi, meglio se per poco tempo, e non per soste prolungate o per dormire.
Ed è qui che ci si rende veramente conto di come siamo circondati dall’architettura ostile. Basti pensare a quelle panchine, o per meglio dire quei cilindri orizzontali di metallo o plastica che si trovano alle fermate degli autobus, buoni solo per poggiarsi momentaneamente, alle panchine senza schienale, a quelle con i braccioli in mezzo (per impedire lo sdraiarsi), a quelle con i seggiolini singoli o a quelle inclinate in avanti.
Talvolta però l’ostilità di queste panchine viene ravvivata da un (fallimentare) tentativo estetizzante. A proposito si vedano gli spessori gialli, applicati sulle panchine di cemento per ravvivarne il colore, che fungono più che altro da deterrente anti-skateboard; le panchine di Parma prima ricoperte da una gabbia in ferro, poi abbellite da dei bellissimi fiori anti-bivacco; oppure quelle opere d’arte moderna che sono certe panchine (che panchine non si direbbero) piegate e contorte in maniera quantomeno peculiare.
L’anti-panchina
Ma il fiore all’occhiello di questa sfilata è un oggetto (o come è stato definito l’anti-oggetto perfetto) apparentemente innocuo. Da lontano sembrerebbe un semplice blocco di cemento ma, avvicinandosi, si svela per quello che è: la mitica panchina nota come Camden Bench.
Le superfici, dalle molteplici inclinazioni, impediscono tanto l’accumulo di spazzatura quanto il transito degli skateboard o una seduta confortevole (è ovviamente impossibile schiacciarci un pisolino); delle rientranze in basso permettono di tenere borse e oggetti personali fra le gambe e il non-oggetto, in modo da prevenire i furti; l’assenza di fessure rende difficoltoso lo spaccio e impedisce l’accumulo di sporcizia; e ha un rivestimento speciale che respinge la vernice. Per riassumere questa anti-panchina è: anti-spaccio, anti-furto, anti-sporcizia, anti-graffito, anti-bivacco e anti-skateboard.
Conclusione
L’architettura ostile ha sollevato molte critiche sia per quanto riguarda la centrocommercializzazione (la mallification di cui prima) in generale, sia per le misure specificatamente rivolte contro i senzatetto. La natura delle accuse generalmente rivolta all’architettura ostile è duplice: da un lato le viene imputata una certa mancanza di pietà e umanità, dall’altro essa viene accusata di non risolvere il problema ma di spostarlo soltanto.
Difatti se alcune misure come l’accanirsi contro i graffiti o gli skateboard, appaiono semplicemente superflue, altre, come le misure che impediscono di dormire, trovare un riparo o scaldarsi, sembrano invece infierire su persone che vivono in una condizione di disagio. Inoltre eliminare il problema spostandolo da un quartiere all’altro è, più che una soluzione, uno scaricabarile; in più eliminare le panchine per eliminare i senzatetto è vedere solo la punta dell’iceberg: l’unico effetto è, appunto, lo spostare il problema, beandosi così di una vista migliore dal proprio balcone, peggiorando ulteriormente la situazione di chi già sta male.
E infine, bisognerebbe considerare cosa questa voglia di rimuovere il diverso, l’incapacità o la non volontà di vedere il disagio umano, che si risolve in una sommaria disinfestazione, ci dica di noi stessi e della nostra società. Di sicuro non ne usciamo bene. Se abbiamo davvero creato un mondo a nostra immagine e somiglianza, l’immagine che ne emerge è quella di borghesucci insicuri, transennati dietro le loro sicurezze, paurosi del mondo e dell’altro, egoisti e ossessionati più dal decoro delle strade, che non dalla situazione dei propri simili.