Scriveva Hannah Arendt che «è nella natura delle cose che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo possa ripetersi anche quando non appartiene a un lontano passato». Non fu l’unica a sostenere la teoria di una sorta di ciclicità della storia: lo fecero (e continuano a farlo), letterati, filosofi e intellettuali. Ad esempio, per quanto i più conservatori lottino per mantenere salda l’integrità delle culture, le migrazioni sono un fenomeno che esiste da che l’uomo abita la Terra, e che continueranno a ripetersi non cessando con la costruzione di muri e l’aumento dei controlli alla frontiera.
Sono passati poco più di cento anni dalla Grande Emigrazione che coinvolse milioni di italiani, e a leggerne i racconti si palesano numerose somiglianze con le storie di chi, oggi, è costretto a lasciare il proprio paese. La storia dei Monti Iblei è ben più di un insieme di date e di numeri, va ben oltre gli aspetti sociologici della questione: si tratta di storie di vita, di tanti uomini e poche donne, di valigie di cartone piene di aspettative e di lettere stropicciate. Un museo, il Museo TEMPO di Canicattini Bagni, l’ha saputa raccontare.
Emigrare dall’Italia
Era la fine dell’Ottocento quando la Grande Emigrazione, dovuta prevalentemente a fattori socio-economici, spinse milioni di italiani a prendere la decisione di lasciare il proprio Paese per cercare fortuna all’estero. Dal 1876 al 1915 furono oltre 10 milioni a partire. Nel Sud Italia il settore industriale era ancora molto incerto, e le persone espulse dal settore agricolo non avevano alternative, se volevano lavorare. Le navi che arrivavano dall’America cariche di merci e ripartivano cariche di persone costavano meno dei biglietti dei treni per il Nord Europa, e questo spinse molti ad attraversare l’Oceano. Partivano braccianti, ma non solo loro. Tanti, infatti, non potevano permettersi nemmeno un biglietto di terza classe, e per questo partivano con i proprietari terrieri che avrebbero comprato casa o un terreno.
Il viaggio, che durava fino a un mese, era tutt’altro che confortevole: per dormire c’erano sacchi imbottiti di paglia, e i servizi igienici consistevano in un orinatoio ogni 100 persone. Come si può facilmente intuire, tante persone morivano prima di raggiungere la loro meta, e chi sopravviveva era sottoposto a rigidi controlli per il timore che fosse portatore di infezioni e malattie. Chi non superava questi controlli era rispedito indietro e chi, invece, riusciva a passarli, doveva combattere con il pregiudizio che marcava gli italiani come mafiosi, assassini, appartenenti a una razza inferiore e soprannominati con disprezzo “pelle d’oliva”.
Il Museo TEMPO di Canicattini Bagni: raccontare l’emigrazione tramite le storie
Sono proprio le storie di queste persone il focus della sezione “Emigrazione” del Museo Tempo di Canicattini Bagni, chiamato anche “Casa dell’Emigrante”, facente parte della rete dell’Ecomuseo degli Iblei. Il museo antropologico è collocato dentro un’abitazione risalente ai primi del ‘900, la cui costruzione venne finanziata dagli emigranti che lasciavano la città per cercare fortuna negli Stati Uniti o in America Latina. Le valige di cartone, le lettere degli emigranti, alcune cartoline di luoghi cittadini e di negozi di prodotti italiani aperti negli Stati Uniti sono solo alcuni degli oggetti che prendono per mano il visitatore e lo aiutano a immergersi nella narrazione del viaggio. Perché l’idea di lasciare casa non resti un concetto astratto, inoltre, è stata creata anche una ricostruzione del vero e proprio momento della partenza.
Non solo migrazioni: un intreccio di storia e cultura
Ma cosa si lasciava alle spalle chi lasciava i Monti Iblei? Non solo fiumi e paesaggi montuosi, ma anche (e soprattutto) una cultura dalle caratteristiche difficilmente rintracciabili altrove. Tra queste, due tradizioni che il Museo ha ben saputo cogliere nell’organizzazione dei suoi spazi: la cultura tessile e la medicina popolare. È proprio da questo legame fertile che prende il nome questo museo: TEMPO sta infatti per Tessuto, Emigrazioni e Medicina Popolare. Ma il nome è anche la chiave per comprendere un intreccio indissolubile di presente e passato, di tradizioni di cui vale la pena conservare la memoria e di elementi culturali che sono stati mattoncini per quella che è la cultura oggi. Infine, il Museo TEMPO è caratterizzato dal non essere rimasto sempre uguale col passare degli anni, ma dall’essere stato arricchito di nuovi contributi e di installazioni che ne aumentano sempre di più il prestigio culturale.
Chi conosce, oggi, la cutra ammurgata, ovvero la coperta bianca decorata che veniva indossata in occasione di festività e matrimoni? E dove altro osservare un antico telaio, per comprenderne il funzionamento e il fascino? Non è tutto: al Museo TEMPO si trovano anche pannelli dedicati alle piante officinali, ma anche olioliti, acetoliti ed enoliti che raccontano i riti utilizzati in passato per guarire ogni sorta di malattie, e con cui trovano familiarità alcune credenze magari perpetrate dalle nonne anche ai giorni nostri.
Una panoramica sulle migrazioni che riguardano l’Italia oggi
Negli ultimi anni il dibattito pubblico in Italia ha girato molto intorno a concetti come quello di clandestinità, immigrazione e sbarchi, fino a parlare di invasione e di pericolo. Nella foga di discutere di chi arriva in Italia, si perde spesso di vista il dato di chi l’Italia ancora decide di lasciarla. Non si tratta di richiedenti asilo né di persone che fuggono dalla povertà, ma spesso si tratta di giovani stanchi della prospettiva di una precarietà che sembra destinata a protrarsi ancora a lungo. I numeri sono tutt’ora in aumento, andando a delineare quella che si profila come la “Nuova Emigrazione”: solo nel 2019 oltre 120 mila persone hanno lasciato il nostro paese. Va detto, tuttavia, che i numeri sono sottostimati, poiché non è detto che tutti coloro che emigrano si cancellino dal registro anagrafico in Italia e si registrino nel paese d’arrivo.
Leggere e analizzare il fenomeno migratorio nella sua complessità, aiutandosi con i dati e non basandosi solo su retoriche populiste che spesso si limitano a riportare dati sommari, è un buon esercizio per comprendere una delle più dirette conseguenze del fenomeno della globalizzazione. Capire che anche gli italiani sono stati e continuano a essere emigranti ha come conseguenza diretta un approccio meno polarizzato e più consapevole nei confronti di chi arriva in Italia, con la stessa valigia di carta di chi, il secolo scorso, lasciò l’Italia per raggiungere l’America.
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