Accade che l’uomo si ferisca durante la propria vita, intimamente o a livello corporeo. Anche l’arte, come insieme di manufatti, tende a rovinarsi, a ferirsi con il tempo. Una statua o un quadro, però, non potrebbero mai ferirsi emotivamente: non sono viventi, non hanno coscienza o emozioni. Ma cosa si può dire quando l’opera d’arte è rappresentata da un essere umano? Come si interpreta la ferita quando lo stesso artista agisce su di sé e non imprime la propria interiorità sulla tela?
Casi famosi sono due artiste che, a loro modo, hanno fatto la Storia. Stiamo parlando della celebre Marina Abramović e di Gina Pane, nata in Francia, vissuta in Italia e altrettanto onorevole performer artistica. Lo scopo della loro Body Art, spesso estremizzata verso l’autolesionismo, non è stato solo quello di colpire l’immaginario con qualcosa di estremo, ma di oltrepassare i limiti convenzionali dell’espressione, per trasmettere un rinnovato messaggio di denuncia sociale. Non si tratta però solo di questo e lo dimostrano le parole di Gina Pane.
Vivere il proprio corpo significa prendere coscienza dei propri fantasmi che non sono nient’altro che il riflesso dei miti creati dalla società… il corpo, la sua gestualità, è una scrittura a tutto tondo. Un sistema di segni che rappresentano, che traducono la ricerca infinita dell’Altro.
Marina Abramović: la vita “ferita”
La vita è il mare dal quale gli artisti pescano l’ispirazione: quella di Marina Abramović fu particolarmente ricca di dolore e delusioni. Nata a Belgrado nel 1946, da irreprensibili genitori di professione militare durante la Seconda guerra mondiale, dal 1965 al 1972 studiò alla prestigiosa Accademia di Belle Arti della sua città. Poi, progressivamente, raggiunse il successo. Tuttavia, dietro all’immagine di un’instancabile artista senza paura, come ha dichiarato lei stessa in numerose interviste, c’è un’anima ferita e spesso insicura.
Da ragazzina mi sentivo brutta e goffa: naso troppo grande, occhiali troppo spessi, scarpe ortopediche per piedi piatti.
Anche la vita di donna, oggi settantenne, non ha mai mancato di renderla infelice. Dalle delusioni amorose, come la relazione tormentata e ossessiva, durata dodici anni, con il collega performer Ulay (Frank Uwe Laysiepen) alla connessa, costante paura di essere abbandonata, di rimanere senza amore.
Metto continuamente sotto pressione gli amori della mia vita. Troppe richieste, troppa ossessione […]. Gli uomini mi abbandonano perché, insaziabile, pretendo tutto l’amore che non ho avuto da bambina. Devo sempre vincere, contro chissà chi, forse i miei genitori…
Rhytm 0 e la vita come denuncia
Le performance dell’artista serba sono numerose, molte rimaste scolpite nell’immaginario collettivo. Come Thomas Lips del 1975 o Imponderabilità a Bologna, nel 1977, o ancora, la più recente e impressionante Balkan Baroque del 1997, alla Biennale di Venezia. Una rappresentazione in particolare, tra le sue prime, ha però cambiato il mondo dell’arte: Rhytm 0.
Nel 1974, presso la galleria Studio Morra di Napoli, il pubblico, giunto in una delle stanze, si trovò davanti a uno spettacolo insolito e ben presto terribile. Su un tavolo si trovavano settantadue oggetti, tra cui fiori, strumenti di lavoro, catene, coltelli, fino ad arrivare a una pistola con un proiettile. Vicino a questi, le istruzioni che indicavano che Marina Abramović lì presente era un oggetto, e che gli altri oggetti presenti potevano essere usati su di lei dal pubblico secondo le volontà di quest’ultimo: l’artista si assumeva tutte le responsabilità.
Inizialmente non accadde nulla di pericoloso, ma con il passare del tempo l’artista venne ferita e umiliata in vario modo. Nonostante il dolore e le lacrime, Abramović rimase docile anche quando le venne posta la pistola carica in mano e, finita la performance, si diresse verso il pubblico, nuovamente come essere umano dopo essersi posta come oggetto. Gli spettatori allora si dispersero, confusi.
L’obbiettivo, drammaticamente raggiunto fu quello di mostrare fino a che punto può spingersi l’uomo davanti a un suo simile, nel caso in cui quest’ultimo sia impotente, esposto alla mercé di ogni cosa. A essere messo a nudo non fu solo il corpo dell’artista serba, ma furono anche i corpi e l’interiorità di coloro che parteciparono. Come emerse la brutalità più cieca, ci furono però anche episodi di dolcezza e comprensione.
Un po’ come nel terribile Esperimento carcerario di Stanford del 1971, quando alcuni volontari furono divisi in due gruppi, guardie e carcerati, e in pochi giorni la violenza si manifestò. Alla fine l’esperimento dovette essere sospeso prima del tempo: in quel caso c’era in gioco una diversa forza rivelatrice.
Le ferite di Gina Pane: strumento per guarire l’anima
Gina Pane è stata spesso incompresa, in gran parte ignorata al di fuori del mondo artistico nei suoi primi anni d’attività. Tuttavia l’artista, morta nel 1990 a causa di un cancro, è oggi considerata una delle più grandi performer nell’ambito della Body Art e, in generale, del ‘900. Azione Sentimentale, messa in atto a Milano nel 1973, rimane una delle sue rappresentazioni più famose, tale da proiettarla verso la fama.
Se apro il mio corpo affinché voi possiate guardarci il mio sangue, è per amore vostro: l’Altro.
Vestita di bianco, con un bouquet di rose rosse a simboleggiare il martirio cristiano, Gina Pane cominciò a staccare le spine dai gambi conficcandole nel braccio, per poi lasciare sanguinare il corpo davanti agli spettatori. Tale atto ha avuto tutto il sapore amaro di un martirio in nome della propria fede, ma è stato anche catarsi: lo scopo dell’artista era distruggere per poi risvegliare le coscienze precedentemente assopite, illuminandole.
Il sangue che distrugge “le gabbie”
È innegabile che il sangue fosse il fulcro della cosiddetta Seconda fase della Pane: qui l’artista cominciò a usare il proprio corpo nella Body art. Per lei non aveva un significato solo religioso, ma costituiva anche lo strumento artistico per denunciare la condizione di discriminazione delle donne, in particolare nei primi anni Settanta.
Durante la performance Il bianco non esiste, messa in atto a Los Angeles nel 1972, Gina Pane cominciò a ferirsi il viso con un rasoio davanti a un pubblico sconcertato. L’obiettivo, come dichiarò in seguito l’artista, era quello di rompere le sbarre della cosiddetta gabbia del canone estetico, all’interno della quale molte donne sono costrette a vivere. Ogni ferita impressa sul suo volto voleva essere la ferita fisica e interiore che si crea in ogni donna sottoposta ad abusi e discriminazioni.
Un esempio di uscita dalla gabbia della propria interiorità fu Escalade non anesthèsiè, tenutasi a Parigi nel 1971. La Pane, con mani e piedi scoperti, salì una scala cosparsa di chiodi. Con una metafora travalicante la fisicità, il suo obiettivo era quello di rendere esplicitamente partecipe il pubblico del suo stato di sofferenza.
Tali performance sono fondamentali per trasmettere al pubblico di ogni epoca un messaggio sempre attuale, soprattutto in una contemporaneità drammaticamente segnata da forme di vero e proprio autolesionismo, specialmente tra i giovani. Questi tentativi, spesso con un esito tragico, hanno lo scopo di comunicare, di gridare una denuncia, una richiesta. Le estreme forme di Body Art emerse negli anni 70 del ‘900 potrebbero anche apparire ad alcuni come un pericoloso invito all’azione in tal senso. Tuttavia vanno invece intese come una provocazione alla riflessione su di noi, sul nostro tempo e sul futuro.
Credits
Copertina – Marina Abramović e Gina Pane
Un commento su “Marina Abramović e Gina Pane: la ferita corporea come denuncia”