La crisi dell’umanesimo è stata segnata, e in buona parte determinata, da tre cesure. Prima, Mikolaj Kopernik (meglio noto con l’italianizzazione “Copernico”) ha decentrato il pianeta Terra dal sistema solare. Poi, Charles Darwin ha relativizzato la storia umana periodizzandone le fasi e intuendone i primati all’origine. Infine, Sigmund Freud ha “spostato” l’uomo più in là della sua anima, intesa come entità senziente e soprattutto consapevole, definendo l’inconscio.
L’autostima di noi esseri umani è stata duramente afflitta da questi “colpi bassi” inferti dalle scienze (o, nel caso della psicologia, di un sapere che a inizio Novecento aveva interesse ad accreditarsi come tale). Il 20 luglio del 1969 ha rinfrancato, rinvigorito, ma al tempo stesso problematizzato la considerazione del genere umano verso se stesso. Abbiamo conquistato, colonizzato un altro corpo celeste (“a big step for humanity“), ma dalla Luna ci siamo accorti del nostro particolarismo, del nostro provincialismo, dell’inestimabile ricchezza di quel mondo che stavamo (e stiamo, ancor più oggi) distruggendo.
Il lancio del James Webb Telescope
Come verrà ricordato, in questa storia fatta di tappe alterne, il 25 dicembre del 2021? Nel pomeriggio del giorno di Natale, dalla Guyana francese ha preso il volo il più grande telescopio mai costruito, il James Webb Telescope. Ci sono voluti più di dieci anni di elaborazione tecnologica e ingegneristica, e solo negli ultimi giorni ci sono stati diversi rinvii dovuti a problematiche metereologiche. Ma finalmente l’erede dello Space Hubble, che per dieci anni studierà l’universo da una posizione privilegiata, a 1,5 milioni di chilometri dalla superficie terrestre, è in orbita.
La destinazione del telescopio è il punto Lagrange L2, a distanza di sicurezza dalle interferenze prodotte dal nostro pianeta, e verrà raggiunta in un tempo stimabile complessivamente in quattro settimane. Qui potranno essere messi a frutto gli oltre venticinque anni di lavoro, fra ideazione, progettazione, realizzazione e pianificazione della missione e del lancio, e i 12 miliardi di euro investiti nella collaborazione fra Nasa, Esa (l’agenzia spaziale europea) e il loro omologo canadese. Il James Webb è il successore dell’Hubble, nel senso che i risultati raccolti da quest’ultimo permisero, negli anni Novanta, di cogliere l’importanza dell’osservazione condotta dallo spazio. Quell’osservazione di cui il JSWT si fa oggi carico.
Le caratteristiche del JWST e le differenze con Hubble
Il James Webb Space Telescope è il più grande mai lanciato nello spazio, col suo diametro di 6,5 metri (quasi tre volte più dell’Hubble). L’obiettivo della missione è scandagliare la luce infrarossa per osservare gli effetti prodotti dal Big Bang, in modo da fotografare una situazione, quella immediatamente successiva allo “scoppio”, oggi ricostruita su base esclusivamente ipotetica. In questo senso, il JWST funziona come una sorta di “macchina del tempo”, capace di farci retrocedere immaginativamente a 14 miliardi di anni fa. Dato che le elevatissime temperature della luce infrarossa impedirebbero i rilevamenti, il telescopio è stato provvisto di specchi e di un complessivo “ombrello” utile a proteggerlo dalle radiazioni di calore.
Al confronto con Hubble, James Webb è cento volte più potente, potrà catturare il settanta per cento di energia in più e, sentendo il Premio Nobel John Mather, a capo del team che si è occupato del lancio, “estende il campo di indagine a distanze e lunghezze d’onda maggiori, che ci permetteranno di osservare oggetti più freddi e più antichi di quelli che Hubble poteva rilevare”. Mentre il presidente dell’Inaf, l’Istituto nazionale di astrofisica, Marco Taviani, aggiunge che l’aspettativa del mondo scientifico attorno al telescopio è grande: “Potrebbe fare molto meglio di Hubble, scoprendo i primordi dell’universo, le prime galassie, la loro evoluzione, e anche i pianeti extra-solari”.
I pianeti extra-solari e la ricerca della vita
La scoperta del primo pianeta extra-solare (o esopianeta: è un pianeta esterno al sistema solare), avvenne ventisei anni fa, quando gli astronomi Michel Mayor e Didier Queloz individuarono una massa gassosa, analoga a Giove, gravitante attorno a una stella simile al Sole, 51 Pegasi. Oggi, secondo lo stesso Mayor, manca molto poco alla scoperta della vita su altri pianeti: “Potremmo arrivarci già prima del 2030, ma di qui a ipotizzare un turismo spaziale come quello di Elon Musk ce ne passa”. Tra gli “osservati speciali” della missione del JWST ci saranno le cosiddette “superterre” o “mininettuni”, cioè dei pianeti la cui grandezza è superiore a quella della Terra ma inferiore a quella di Nettuno.
Sarà possibile osservarli e “vivisezionarli” meglio che con Hubble, e l’obiettivo sarà soprattutto quello di scoprire se dispongano di un’atmosfera, precondizione ineludibile anche solo per l’ipotesi remota di rintracciare tracce biologiche, tracce di vita. Secondo Kevin Stevenson, docente della Johns Hopkins University, “trovare segni di vita sarà difficile, e non sono sicuro nemmeno che troveremo bioforme, ma credo che scopriremo informazioni interessanti sulle atmosfere di questi pianeti in orbita intorno alle stelle”.
L’indiscrezione del Daily Mail
La NASA investe da anni sul coordinamento di iniziative atte a riflettere sulle implicazioni culturali delle scoperte dell’astrobiologia. Non stupirebbe, per questo, l’accertamento della veridicità delle indiscrezioni riportate in settimana dal Daily Mail: secondo il tabloid inglese, l’agenzia spaziale statunitense avrebbe “arruolato” un team di ventiquattro rappresentanti delle religioni più diffuse nel globo al fine di cercare la risposta a un quesito teologico: come reagirebbe l’umanità alla scoperta della vita aliena? Ecco che allora la conquista/scoperta dello spazio, a più di cinquant’anni dallo sbarco sulla Luna, potrebbe tornare a popolare la nostra società. In un impasto di inquietudini ed entusiasmo che non è poi così diverso da quello di Copernico, Darwin, Freud e di tutti i loro contemporanei.