In Italia la terra, ogni tanto, trema. Il nostro Bel Paese è stato più di una volta epicentro di scosse tremende, che hanno distrutto case e ucciso intere famiglie.
Tre disastri sismici
Sono le 5:20 di mattina quando sotto Messina, il 28 dicembre 1908, la crosta terrestre si rivolta su se stessa. Un terremoto di magnitudo 7.2 sulla scala Richter colpisce la città mentre tutti ancora dormono nelle proprie case e il freddo del mattino invernale è pungente. Gli edifici si accartocciano su loro stessi, il fragore dei crolli irrompe nelle zone vicine, si sentono le prime urla.
Nel giro di poco tempo anche il mare si infuria e con una tremenda onda si abbatte con tutta la sua potenza sulle coste dello stretto. Crollano il 90% delle abitazioni della città siciliana, muoiono circa 80.000 persone.
L’Aquila, 6 aprile 2009. Alle 3:32 un fragore si alza dal sottosuolo. Il terreno sembra impazzito, le case tremano e poi cominciano a crollare, secoli di storia condensata nelle piazze, nelle chiese, nei campanili spariscono in pochi minuiti. Il terremoto dell’Aquila ha causato la morte di 309 persone e ha creato circa 80.000 sfollati.
Camminando per il centro di Norcia si vede ancora la chiesa distrutta dal sisma del 2016. Ai piedi del cumulo di macerie un turista scatta una foto, immortala il tempo che pare essersi fermato dopo la notte del 24 agosto, quando intorno alle 3 quella chiesa cadde a terra come un castello di carte colpito da un soffio di vento. Nel corso dello sciame sismico che interessò molti comuni tra Umbria e Marche dal 24 agosto 2016 al 18 gennaio 2017 crollarono le case di 41.000 persone. È questo il numero degli sfollati rimasti a piangere i circa 300 morti di 5 anni fa, persone e famiglie che aspettano che il tempo ritorni a scorrere nel loro paese, vivendo nel frattempo in una parentesi di vita prefabbricata, in alloggi di fortuna messi in piedi dallo Stato.
Non è solo un ricordo
Il giorno dopo i terribili eventi tutta l’Italia sapeva. I giornali del 29 dicembre 1908 parlano di un’apocalisse inimmaginabile, mentre un secolo più tardi sono le reti televisive a trasmettere le prime immagini delle catastrofi dell’Aquila e di Amatrice, Norcia, Arquata del Tronto e altri comuni. Partono raccolte fondi e gare di solidarietà per dare un aiuto a chi in pochi secondi si è visto portare via tutto. Lo Stato si attiva: costruisce piccoli prefabbricati per dare un tetto alle migliaia di sfollati che cercano di ritagliare qualche ora di sonno nelle proprie macchine, mentre in sottofondo la terra continua a borbottare.
Ma la verità è che quelle tragedie infettano ancora il presente di chi le ha vissute sulla propria pelle, rimangono ferite aperte nel cuore di città che non sono mai tornate come prima.
Le baraccopoli di Messina
Quando nel 1908 l’orizzonte di Messina è stato coperto dall’onda anomala che insieme al terremoto spazzò via la gran parte delle abitazioni dell’epoca, lo Stato garantì ai superstiti una celere procedura di re-inserimento nelle proprie case. Agli sfollati sarebbero state assegnate delle piccole baracche, “giusto per un paio di notti” avevano detto al tempo. Più di un secolo dopo, tra le lamiere che rilasciano amianto di quelle casupole di fortuna abitano ancora circa 6.500 persone. Da generazioni intere famiglie hanno dovuto rendere una soluzione temporanea la propria, drammatica quotidianità.
Al via il nuovo progetto di riqualificazione
Con lo scoppio della pandemia i riflettori mediatici si sono riaccesi su una situazione drammatica concreta, sbiadita nella coscienza del resto d’Italia e dei Governi che si sono susseguiti nel corso del tempo. Nel maggio 2021, dopo decenni di sostanziale silenzio, finalmente nei palazzi del potere si è mosso qualcosa: 100 milioni sono stati stanziati per il risanamento della zona, che impiegherà circa tre anni per essere portato a termine. Il progetto prevede anche la demolizione delle pericolanti abitazioni abusive costruite nel corso di oltre un secolo nella zona dell’iniziale baraccopoli messinese. Il Prefetto Cosima Di Stani è stata nominata come coordinatrice dell’azione di abbattimento e ricostruzione degli edifici destinati ai terremotati del 1908, un progetto che dovrebbe concludersi entro un paio d’anni.
Nonostante l’entusiasmo delle istituzioni, gli abitanti della baraccopoli rimangono scettici: “mio marito diceva sempre che saremmo morti in questa baracca”, racconta Provvidenza, 82 anni, sulle pagine de L’Internazionale, “e in effetti lui è morto qui”. Dopo più un secolo l’unica cosa che appare più logora delle pareti delle baracche più antiche sembra essere la speranza e la fiducia in un futuro migliore.
La ricostruzione degli edifici pubblici arranca all’Aquila
Altra città, altra storia, stesso dramma. Sfrecciando in macchina sull’autostrada si passa accanto all’Aquila: il tramonto disegna sugli edifici il profilo bucherellato delle gru, immobili totem a ricordo di una ricostruzione mai pienamente conclusa. Se da una parte gli edifici privati sono in molti casi approdati al taglio del nastro inaugurale, non lo stesso vale per le opere pubbliche. I palazzi più antichi della città rimangono tristemente abbandonati a sé stessi, mente la comunità dell’Aquila e dei comuni limitrofi si sente privata delle proprie radici.
Evidentemente non si tratta solo di un cumulo di mattoni ammassato disordinatamente ai bordi di una piazza: quel mucchio di macerie gode di una memoria storica compressa e silenziata dal disastro del crollo.
Un passato cancellato e un futuro difficile da ricostruire
Vittorio, residente a Spelonga, parla della madre Annita di anni 88, malata di cancro, in un servizio di Propaganda Live. Racconta di una quotidianità che si trascina tra paesi sferzati dal sisma e il Covid che entra nelle case prefabbricate delle persone. Si tratta di storie di isolamento e tristezza, storie di persone che vedono la loro terra lentamente morire. “I giovani vanno via, si laureano, trovano lavoro. Cosa restano a fare qui?” si chiede Vittorio. “Così rimangono gli anziani da soli, senza una comunità, senza socialità. Questo paese diventerà una meta delle vacanze per qualcuno, niente di più”.
Nelle zone colpite dal terremoto del 2016 le case che sono state ricostruite rimangono senza nessuno che le voglia abitare. Il sisma ha insediato le prime crepe nel senso di comunità di questi luoghi e il Covid sembra aver sradicato le fondamenta della voglia di aggregazione di cui si nutre ogni città.
Il prezzo pagato dai giovani
A soffrire di questa situazione di spopolamento e abbandono non sono solo gli anziani, costretti in casa dalla minaccia del virus. Il sindaco di Arquata del Tronto, Michele Franchi, indica un lungo e basso edificio color mattone e sospira. “Quella è una scuola all’avanguardia” racconta “Ci sono le lim, i banchi nuovi, gli impianti di ultima generazione. La struttura è ottimale, ma la Regione ci costringe a formare delle ‘pluriclassi’ che accorpano studenti di età diverse”.
La denuncia del sindaco Franchi riguarda in particolare la rigidità con cui viene applicata la legge sulla distribuzione degli alunni nelle classi, che prevede la presenza di almeno 18 studenti per sezione. Negli anni passati al comune di Arquata era stata riconosciuta una deroga per lo status di terremotati, deroga che dal prossimo gennaio la Regione ha scelto di non riconfermare. Il risultato sono appunto queste “pluriclassi”, composte da ragazzi di prima, seconda, terza media, in cui i professori sono costretti a seguire programmi inefficienti per venire incontro alle necessità di studenti di età diverse, abbassando inevitabilmente la qualità dell’insegnamento.
Ancora molto lavoro da fare
Lo Stato in questi giorni ha salutato lo smaltimento della baraccopoli di Messina come la tanto attesa cancellazione di una vergogna protrattasi per troppo tempo. Ascoltando le parole degli esponenti politici ci sembra di dover salutare questo come un successo, come la medicina a una ferita che finalmente può chiudersi. Rimangono però i dolorosi moniti delle identità tradite di Amatrice, Norcia, Arquata del Tronto, Spelonga, L’Aquila e la rassegnazione della stessa Messina, che lamentano stancamente il disgregarsi colpevole di comunità antichissime, schiacciate sotto l’inerzia degli eventi e dei fondi mancati.
“Ci trattano come numeri”, commenta rassegnato il sindaco Michele Franchi: intere storie di persone, di comunità e di città colpite dal terremoto e poi spazzate via da calcoli burocratici protratti per decenni.
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