Come ad alcuni sarà già noto, il 12 di dicembre, a Parigi, si è tenuta una conferenza sul tema delle prossime elezioni in Libia. L’evento, ufficialmente co-organizzato dal Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, dal premier italiano Draghi, dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, dai principali leader politici del Paese e dall’ONU, era da lungo tempo atteso. Si sono trattati alcuni temi cruciali per il futuro politico della Libia, che prevede di tenere le sue prime libere elezioni dai tempi di Gheddafi entro fine anno.
Caos che viene da lontano
Come noto, l’instabilità nel Paese nordafricano non è certo un tema nuovo. Sin dalla guerra civile del 2011 – quella che ha condotto al rovesciamento e all’uccisione dell’ex dittatore Mu’ammar Gheddafi – la Libia è stata soggetta a una serie di violenze localizzate, alle quali il governo centrale, eletto nel 2012, è stato puntualmente incapace di far fronte.
Il GNC (Congresso Generale Nazionale), allora unica autorità legislativa in Libia formata con lo scopo di dare al Paese una Costituzione democratica permanente, vide le proprie frange islamiste diventare sempre più preponderanti, arrivando nel 2013 ad approvare una variante della Sharia (il complesso di regole di vita che tutti i fedeli musulmani devono osservare, ndr). Questa e altre iniziative della GNC vennero spesso imposte con la forza, fatto che, nel 2014, spinse il generale Khalifa Haftar – già importante sotto Gheddafi – a lanciare l’“operazione Dignità”: una serie di offensive militari contro le milizie islamiste, effettuate con la promessa di liberare il paese dalla violenza delle milizie islamiste.
Il governo centrale, guidato da Abdullah al-Thani, dichiarò che l’operazione rappresentasse un tentativo di colpo di Stato, e si oppose. Pochi giorni dopo, però, le forze alleate di Haftar presero d’assedio la sede del parlamento di Tripoli, costringendo il governo a indire nuove elezioni per un nuovo parlamento, la Camera dei rappresentanti. Dopo uno svolgimento tutt’altro che trasparente, che vide appena il 18% della popolazione avente diritto recarsi alle urne, le elezioni videro una netta vittoria del fronte liberale, a discapito di quello islamista. Ne risultarono una serie di scontri tanto verbali quanto militari, che portarono all’affermarsi di due fronti contrapposti: un governo con sede a Tripoli, riconosciuto dal GNC, e uno insediatosi a Tobruch, nell’est del Paese, guidato da al-Thani e riconosciuto da Haftar e dalla comunità internazionale.
L’intervento dell’ISIS
La comparsa, nello stesso anno, dell’ISIS nel Paese complicò ulteriormente una situazione già esplosiva, alla quale la comunità internazionale – i Paesi dell’area Mediterranea in primis – guardò con crescente apprensione.
Il Governo di Accordo Nazionale, nato da una serie di colloqui promossi dall’ONU e insediatosi nel 2016, nonostante fosse uscito vittorioso dal conflitto con l’ISIS, trovò enormi difficoltà nell’imporsi, complici la crisi economica che devasta il Paese e il mancato appoggio dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), guidato dal generale Haftar, il quale poteva contare sul controllo della ricca zona della “mezzaluna petrolifera” e sull’appoggio della Russia di Putin.
Ne seguì una nuova stagione di violenze, conclusasi soltanto il 23 ottobre del 2020 con la firma di un cessate il fuoco volto che prosegue tutt’oggi mentre assistiamo al graduale ritiro delle truppe straniere in vista delle elezioni previste per il prossimo 24 dicembre.
La conferenza
La conferenza tenutasi lo scorso 12 di novembre a Parigi aveva l’ambizione di inserirsi come ultimo tassello in una rinnovata stabilità dell’assetto istituzionale libico. Gli obiettivi “concreti” – o presunti tali – erano due: il definitivo ritiro delle ultime truppe mercenarie straniere presenti nel Paese, in particolare quelle russe e turche o filo-turche, e assicurare il regolare svolgimento delle elezioni indette per la prossima vigilia di Natale.
Nonostante i grandi proclami (si può trovare la relazione ufficiale dell’incontro qui), non sembrano essere stati fatti significativi passi in avanti su quelli che erano i punti cruciali dell’incontro: il primo ministro Abdulhamid Dbeibah, uno dei due “leader forti” presenti, contrapposto al presidente Mohamed al-Menfi, ha glissato circa le voci su una sua possibile candidatura, e soprattutto sulla data delle elezioni, sulla quale “deciderà la commissione elettorale”.
Il governo ad interim da lui guidato, del resto, dovrebbe approvare una fondamentale legge elettorale “nel giro di pochi giorni”, come ha ribadito il premier italiano Mario Draghi, e tutto lascia pensare che questa sollecitazione sia destinata a cadere nel vuoto. Restano dunque numerosi punti interrogativi circa il regolare e corretto svolgimento di queste elezioni fondamentali per il futuro della Libia, che vedono già un centinaio di candidati.
Promesse rimangiate: i candidati
Proprio queste candidature sono forse il nodo apparentemente più complesso da sciogliere, e che rischia di ritardare o addirittura di mandare a monte queste storiche elezioni. Sebbene un alto numero di cittadini abbia infatti già ricevuto la tessera elettorale e abbia registrato la volontà di recarsi al voto, infatti, le continue schermaglie, legali e non, tra i vari candidati rischiano di far saltare il precario equilibrio così faticosamente raggiunto.
Uno dei nomi più discussi è certamente quello di Saif Gheddafi, figlio dell’ex Raìs deposto e ucciso nel 2011. Condannato a morte per crimini di guerra nel 2015, egli ha ricevuto un’amnistia che gli è valsa la scarcerazione l’anno successivo, e ad oggi vive in una località segreta. La sua candidatura era stata inizialmente respinta, ma il ricorso presentato in tribunale l’ha riconosciuta come valida; nonostante il verdetto, però, il suo rimane un nome particolarmente controverso.
Non meno eclatante è il nome del generale Khalifa Haftar il quale, vedendo sfumare la possibilità di una presa del potere per mezzo delle armi, non ha esitato a scendere in politica. Contro la sua candidatura pendono numerosi ricorsi ancora in fase d’esame, e non è chiaro quanto tempo possa essere necessario per analizzarli. Discorso molto simile vale per il premier Dbeibah, che al momento della nomina aveva promesso di non candidarsi alle elezioni. Oggi la candidatura è stata dichiarata valida, in quanto la sua difesa (che voleva tale promessa come “unicamente morale, e non legalmente vincolante”) ha saputo far valere le proprie ragioni in tribunale: ciò non è però bastato a prevenire il mare di ricorsi presentati contro di essa, e anche qui non è chiaro se sarà possibile analizzarli in tempo per il 24 di questo mese.
Fazioni e gruppi armati
L’aspetto forse più inquietante però, come ha dichiarato anche l’ex ambasciatore americano in Libia Richard Norland, non riguarda tanto gli scontri in tribunale, quanto quelli fuori: ognuno dei nomi citati, così come molti altri, fa capo a una fazione specifica. Tali fazioni però spesso hanno dietro di sé, o talvolta coincidono direttamente, con gruppi armati piuttosto numerosi, dei quali fanno parte anche le succitate truppe mercenarie di Russia (la quale ha preso parte alla conferenza, ma inviando un delegato) e Turchia (per cui invece il presidente Erdogan ha preferito disertare il summit).
È così che, mentre le tensioni salgono alle stelle tra città che già minacciano di boicottare il voto ed eserciti pronti a far sprofondare nuovamente il Paese nel caos, molti esperti si vedono costretti ad ammettere che la conferenza abbia messo in chiara evidenza lo “svanire dell’influenza europea” e “il prevalere del potere delle pallottole su quello delle urne”.