Quella dell’autorizzazione del suicidio assistito in Italia sembrava una storia a lieto fine, celebrata da molti come un traguardo storico, ma in cui non potevano di certo mancare le complicazioni. Negli ultimi giorni, nello specifico martedì 23 novembre, è accaduto qualcosa di importante riguardo il dibattito italiano intorno alla questione del porre fine a una vita, e nello specifico il dibattito sulla possibilità di ricorrere al suicidio assistito. Su tutti i giornali si è parlato dell’autorizzazione del primo suicidio medicalmente assistito in Italia, decisione presa dal comitato etico dell’azienda sanitaria delle Marche dopo una sentenza del tribunale di Ancona riguardante un uomo tetraplegico.
La storia di Mario
La decisione dell’ASL delle Marche, infatti, è stata resa pubblica dall’associazione di promozione sociale Luca Coscioni, che aveva seguito la vicenda di Mario, un uomo di 43 anni immobilizzato da dieci anni a causa di un incidente stradale e in condizioni irreversibili. Il paziente tetraplegico, che inizialmente aveva deciso di andare in Svizzera, si era già rivolto all’ASL nell’agosto 2020, senza alcun successo, richiedendo la possibilità di suicidio assistito. L’azienda sanitaria marchigiana si era però rifiutata di verificare se ci fossero le condizioni per rendere non punibile il suicidio assistito, come indicato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 2019.
Difatti, chi aiuta un suicidio non è necessariamente punibile. Se il paziente “è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale”, è “affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili” ed è “pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, il suicidio assistito non è reato.
Modalità di attuazione
L’uomo, in seguito al rifiuto dell’ASL di controllare le condizioni necessarie, aveva proceduto presentando un reclamo, in seguito al quale il Tribunale di Ancona ha ordinato all’azienda sanitaria delle Marche di verificare le condizioni del paziente e quindi la sussistenza dei criteri che rendono l’aiuto al suicidio non punibile.
Il comitato etico dell’azienda ha deciso che il paziente rientra nelle condizioni stabilite dalla Corte Costituzionale, ma ha poi specificato che restano da individuare le modalità di attuazione. Nel suicidio assistito, infatti, il farmaco necessario a porre fine alla propria vita viene assunto in modo autonomo dalla persona malata, a differenza dell’eutanasia nel caso in cui invece è il medico ad avere un ruolo fondamentale nella somministrazione del farmaco.
Una strada tortuosa
In Italia, però, non ci sono leggi che regolamentino il suicidio assistito, perciò la sua applicazione è difficile da realizzare.
Poiché la possibilità di accedervi è regolata esclusivamente dalla sentenza della Corte Costituzionale, ogni singolo caso deve essere gestito, con modalità non sempre definite e chiare, dalle autorità sanitarie locali. La discussione sul caso del paziente in questione è nata intorno al problema del dosaggio da utilizzare nella somministrazione del farmaco. Nella sua richiesta, l’uomo aveva proposto di utilizzare il tiopentone sodico con un dosaggio di 20 grammi, che, però, secondo il comitato etico dell’azienda sanitaria delle Marche, sarebbe “una quantità non supportata da letteratura scientifica”. Pertanto, non è affatto chiaro se e come si potrà procedere a dare seguito alla volontà di Mario.
Il sistema sanitario italiano, infatti, non dispone di alcun tipo di percorso stabilito per richiedere il suicidio assistito. Una proposta di legge in materia di interruzione della vita volontaria medicalmente assistita è all’esame delle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera, ma i tempi per la discussione in Parlamento e per l’approvazione potrebbero essere molto lunghi, data anche la presenza di diverse persone sfavorevoli al testo, come la senatrice Paola Binetti, che ha affermato che: “Questa non è l’affermazione della libertà di una persona che vuole morire, ma il fallimento di una società che non è stata in grado di prendersi cura di lui a 360 gradi. È una inversione radicale della missione del medico”.
Suicidio assistito in Europa
Nel resto dell’Occidente, però, il suicidio assistito sta rapidamente diventando legale e accettato, legato anche al modo in cui le persone pensano alla morte. “Prima è, meglio è”, ha risposto la signora Carrasco al marito poco prima che questi le porgesse il bicchiere di barbiturici che l’avrebbero uccisa. La morte di María José Carrasco, affetta da sclerosi multipla, ha provocato una tempesta mediatica in Spagna e in gran parte dei paesi occidentali nel 2019. In molte di queste nazioni l’opinione pubblica è da tempo favorevole alla morte assistita. Già nel 2002 il 60% degli spagnoli sosteneva l’eutanasia volontaria, una quota che era salita al 71% nel 2019.
In Belgio, Colombia e Paesi Bassi i governi hanno addirittura ampliato le leggi sulla morte assistita per includere i bambini malati terminali. Trent’anni fa, il suicidio assistito era illegale ovunque tranne che in Svizzera.
Negli Stati Uniti
Solo nel 1997 lo stato dell’Oregon ha approvato il Death with Dignity Act, dando il via a un’ondata di liberalizzazione. L’idea secondo cui le persone malate terminali, e non il governo, i politici o i leader religiosi con i loro dogmi, dovrebbero prendere le decisioni sul fine vita, determinando quanto dolore e sofferenza siano sopportabili, pone in primo piano la difesa della liberà individuale. L’iter che conduce alla morte è comunque rigido: due medici devono confermare la residenza del paziente, la diagnosi, la prognosi, la competenza mentale e l’intenzionalità della richiesta. Con l’attuazione di questa legge sono morte ad oggi circa 2.000 persone, senza che siano state segnalate morti ingiuste.
L’espansione del “diritto alla morte” non è però esente da controversie. In Canada, la Corte Suprema ha stabilito che il divieto di assistenza medica in caso di morte viola la Carta nazionale dei diritti: l’assistenza è stata così resa disponibile per tutti i canadesi che soffrono di malattie fisiche croniche o disabilità e la legge consente dunque ai pazienti di determinare che cosa costituisce per loro sofferenza “insopportabile”. Gli oppositori della legge temono però che il Canada, così facendo, possa finire per aiutare le persone a morire prima ancora di averle aiutate a vivere.
Una possibilità in più
In questo contesto, il paziente tetraplegico avrebbe potuto scegliere di spostarsi in altri Paesi, come la Svizzera, in cui è possibile e legale mettere fine alla propria esistenza. Mario ha insistito, invece, usando il proprio corpo come strumento di battaglia, perché fosse possibile usufruire di questo diritto anche in Italia.
A ostacolare il suo “lieto fine” è però la mancanza di una definizione del processo di somministrazione del farmaco legale. Per quanto il signor Mario abbia dunque ottenuto parere positivo da parte dell’ASL marchigiana, e per quanto la stampa lo ritenga il primo malato in Italia a ottenere il via libera al suicidio medicalmente assistito, salutando il caso come una svolta storica, la sua vicenda non è ancora finita, così come quella di tanti altri pazienti che si trovano nelle sue stesse condizioni.
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