A settembre, come ormai è noto, si è tenuto a Milano lo Youth4climate, un evento organizzato dal governo in collaborazione col Regno Unito volto a un’aperta discussione tra gli attivisti ecologisti e diversi membri dei due governi. Non poteva ovviamente mancare il volto più noto dell'”onda verde”: Greta Thunberg, simbolo del movimento ambientalista sempre più capace di coinvolgere milioni di ragazzi – e non solo – di tutto il mondo. L’attivista svedese ha avuto persino l’occasione di incontrare il premier Mario Draghi, con il quale ha discusso del Cop26 tenutosi a novembre.
È proprio in quest’occasione, racconta il consigliere di Draghi, Francesco Giavazzi, che Greta avrebbe dichiarato qualcosa di assolutamente non scontato. Giavazzi racconta di aver chiesto a Greta, durante l’incontro, come lei avrebbe affrontato la transizione energetica, aggiungendoci un – verosimilmente sarcastico – “usiamo il carbone?”. Laconica la risposta di Greta: “No, l’energia nucleare“.
Il recente dibattito
Prendendo per buona la testimonianza – non esistono riprese dell’incontro -, la dichiarazione della Thunberg appare tutt’altro che scontata. Ben sappiamo quanto il dibattito attorno all’utilizzo dell’energia nucleare sia caldo: la stessa cronaca delle recenti settimane ce lo racconta. Appena a settembre, lo ricordiamo, il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani aveva sollevato un polverone con le sue dichiarazioni a favore dell’utilizzo del nucleare, invitando quelli che lui ha definito “ambientalisti radical chic“ ad andare “oltre le ideologie”.
Tanto è bastato a scatenare un vero circo mediatico: le opposizioni ne hanno prontamente chiesto le dimissioni, arrivando addirittura a definirlo un “nemico dell’ambiente” (Maurizio Acerbo, Rifondazione Comunista), mentre le stesse forze di maggioranza hanno preteso una ritrattazione, arrivata parzialmente una settimana dopo. Pleonastico citare l’insofferenza dimostrata dagli ambientalisti di tutto il Paese, che non hanno mancato di rispondere alla provocazione.
Le posizioni
Non sono mancate però anche parole di sostegno al ministro, vicino a Italia Viva, supportato dalle principali organizzazioni a favore del nucleare, prima fra tutte l’Ain (Agenzia Italiana Nucleare). Il presidente Monopoli ha voluto “plaudere alle parole del ministro”, e si è detto “stupito per le polemiche attorno a delle iniziative già da tempo introdotte nell’economia internazionale”. Spettatrice particolarmente interessata al dibattito è stata poi l’opinione pubblica francese: la Francia, vera grande “ambasciatrice” del nucleare in Europa, preme da tempo per una conversione energetica di tutta l’UE, ma ha finora dovuto fare i conti con le strenue opposizioni, tra le altre, di Italia e Germania.
Il nucleare in Italia
Il polverone sollevate dalle dichiarazioni di Cingolani rappresenta solo l’ultimo capitolo di un dibattito di lunga data, in Italia. Va ricordato come, intorno agli anni Sessanta, l’Italia fosse il terzo investitore al mondo nella costruzione di centrali nucleari, dietro soltanto a Stati Uniti e Regno Unito.
Nel corso di nemmeno un decennio, l’Italia si era munita di tre centrali elettronucleari, tutte dotate di reattori e tecnologie differenti – ai tempi esisteva una gran quantità di innovazioni in materia, e di nessuna di queste si conoscevano di preciso vantaggi e rischi connessi. La produzione energetica di origine nucleare arrivò a ricoprire appena il 3-4% del fabbisogno nazionale, e per questo fu varato, nel 1975, il PEN (Piano Energetico Nazionale), volto a programmare una serie di pesanti investimenti nella costruzione di nuovi reattori.
Un progetto mai decollato
Con l’arrivo degli anni Ottanta, lo scenario cambiò drasticamente. Gli incidenti di Three Mile Island negli USA del ’79 e quello arcinoto di Chernobyl nell’86 – in aggiunta a quello, decisamente minore, dell’impianto di Suessa Aurunca datato 1982 – accrebbero l’apprensione attorno alla sicurezza delle centrali nucleari. Apprensione che sfociò nei referendum del 1987, dove l’80% dei votanti si espresse a favore di alcune limitazioni minori ma significative nella transizione verso la produzione di energia elettronucleare, finché nel 1990 il governo Andreotti VI chiuse l’ultima centrale nucleare ancora in funzione nel Paese.
Tutte le centrali rimasero in attesa di smantellamento, mentre si provvide – o si tentò di provvedere – allo smaltimento sicuro delle scorie radioattive.
L’impennata dei prezzi di petrolio e gas nel triennio 2005-2008 riaccese all’improvviso un dibattito che sembrava ormai morto, e il governo Berlusconi IV – su presunte pressioni di Francia e USA – spinse molto per la ripresa dell’avventura nucleare italiana. Una serie di interventi legislativi però ne minarono il percorso, e il referendum abrogativo del 2011 successivo all’incidente nella centrale giapponese di Fukishima vide il 54% dei votanti favorevoli a interrompere per sempre ogni tentativo di rimettere in piedi un PEN.
Reattori “di quarta generazione” e problematiche ambientali
Nel suo intervento sopra citato, Cingolani ha fatto riferimento a reattori nucleari “di quarta generazione“, più sicuri ed efficienti rispetto a quelli del passato. È bene fare un po’ di chiarezza intorno a queste ‘figure mitologiche’.
Si tratta di una famiglia di progetti di nuovi reattori nucleari a fissione a catena – capaci, cioè, di gestire quel processo chimico-fisico-nucleare di decadimento atomico ripetutamente e in sicurezza – che sono allo studio già da decenni, ma rimasti per ora puramente ipotetici. Si tratta di ricerche che per ora hanno portato a risultati solo teorici, e si ipotizza che non possano essere realizzati prima di alcuni altri decenni.
Rispetto ai reattori di generazioni precedenti, utilizzerebbero materiali differenti, pur mantenendo plutonio e uranio come principali combustibili. Secondo i promotori di tali studi, un reattore di quarta generazione dovrebbe essere in grado di garantire un’impareggiabile sicurezza, oltre a ridurre la produzione di scorie radioattive e assicurare una maggiore redditività economica – argomento, quest’ultimo, contestato da alcuni studi.
A causa degli elevati costi della ricerca e degli scarsi risultati raggiunti finora, anche la Francia ha abbandonato la ricerca insieme ad altri Paesi. Per il lettore amante dell’ingegneria nucleare e indispettito dal linguaggio profano, si suggerisce di consultare questo studio.
#Nucléaire : la France abandonne la quatrième génération de réacteurs. Un coup dur pour l’avenir de la filière. https://t.co/Vj7IThzoTr
— Le Monde (@lemondefr) August 29, 2019
Ritorno al nucleare
Senza tali innovazioni, la cui ricerca è appunto a un punto morto, un ritorno di fiamma dell’energia nucleare in Italia sembra improbabile, oltre che scarsamente conveniente. Numerose ragioni scientifiche – oltre alla psicologia di massa e al timore – hanno infatti condotto al rifiuto del 2011.
Vanno infatti ricordati alcuni fattori specifici legati alle contingenze nazionali, oltre a quelli più generali a livello globale legati principalmente alla sicurezza e ai costi. Il territorio italiano presenta infatti diverse zone ad elevato rischio sismico, il che comporterebbe gravi rischi di incidenti nucleari; va poi ricordata la scarsa efficienza già dimostrata nello smaltimento delle scorie generate dai precedenti reattori – una parte significativa delle quali è tutt’ora presente. Paradossalmente, un’innovazione che rappresenterebbe una sorta di assicurazione per i lunghi tempi necessari a una completa transizione energetica green potrebbe comportare più rischi ambientali che benefici.
Il dibattito è tutt’altro che chiuso, e le parole di Greta sono inevitabilmente destinate a riaccenderlo. In attesa di capire in che direzione si muoveranno i futuri governi, sarà importante capire l’effettivo stato dell’arte, a prescindere tanto da condizionamenti psicologici quanto da interessi economici.
Un commento su “Greta a Draghi: “Servitevi del nucleare.” Ma davvero conviene?”