Un boato, la puzza di fumo, il grido dei primi feriti. Tre minuti dopo un secondo scoppio, altro sangue, altri morti. È cominciata così la mattinata del 16 novembre a Kampala, capitale dell’Uganda. Due ordigni esplosivi sono stati fatti detonare da tre kamikaze nei pressi di una stazione di polizia e nelle vicinanze del Parlamento, fulcro del potere politico del Paese. L’attacco ha provocato la morte di 7 persone, di cui tre sono gli organizzatori dell’attentato. Almeno 36 invece i feriti, alcuni molto gravi. Ma Kampala non può certo fermarsi a leccarsi le ferite: l’allerta rimane alle stelle dopo che la polizia della capitale ugandese ha rinvenuto altre bombe pronte alla detonazione in diversi luoghi della città.
A distanza di un giorno dalle due esplosioni, un messaggio dell’ISIS toglie i pochi dubbi che potevano permanere sulla matrice dell’evento: terrorismo, terrorismo islamico.
In particolare, la paternità dell’attentato è stata rivendicata dalle Allied Democratic Forces (ADF), una fazione dello Stato Islamico che da anni opera in Uganda e nella Repubblica Democratica del Congo rendendosi protagonista di diversi disordini.
La storia delle ADF in Uganda
Per inquadrare storicamente gli avvenimenti di martedì 16 a Kampala è necessario fare un passo indietro nel tempo, concentrandosi in particolare sulla storia geopolitica dell’Uganda e della Repubblica Democratica del Congo negli ultimi trent’anni.
Correva l’anno 1995: un accordo tra la setta islamica ugandese Tabliq e il National Army for the Liberation of Uganda sanciva la nascita delle Allied Democratic Forces. L’obiettivo del neo formato gruppo militare consisteva nella destabilizzazione del governo ugandese, presieduto allora come oggi da Yoweri Museveni e accusato di operare una politica fortemente filo-americana che discriminava i gruppi islamici.
In breve tempo l’imponente impegno nell’addestramento dei novelli dissidenti, che fu sovvenzionato anche dal governo del Sudan, diede i suoi frutti: dal 1996 la sigla ADF cominciò a rimbalzare su molte testate di politica nazionale e internazionale, associata ad attentati e violenze in tutta l’Uganda. Per far fronte agli efferati e continui attacchi, il governo ugandese stabilì di intensificare la presenza delle proprie forze militari, le Uganda People’s Defence Force (UPDF), nella parte orientale del Congo, patria natale delle ADF. Inutile dire che il governo congolese non si rassegnò all’azione militare ugandese sul proprio territorio e reagì sovvenzionando le Allied Democratic Forces nella speranza di liberarsi della scomoda presenza dell’esercito straniero.
Il risultato non fu dei migliori: mentre nel corso del 2001 l’UPDF ottenne importanti vittorie, le ADF si radicarono con sempre maggiore decisione in Congo, in particolare nella ricca regione del Kivu, acquisendo anche interessi economici nella produzione agricola del paese e nell’estrazione dell’oro.
Sono questi gli anni del fondamentale mutamento del volto delle ADF. Rabbonito dall’arricchimento ottenuto grazie alle ingerenze nell’economia congolese, il gruppo armato diminuì drasticamente la sua azione in Uganda. Le Allied Democratic Forces entrarono dunque in uno stato di sostanziale quiescenza, destinato a perdurare fino al 2012.
Le relazioni con l’ISIS
Il 2013 segna il riavvio delle violenze targate ADF. Dimentichi degli ormai datati impegni politici in Uganda, gli uomini delle Allied Democratic Forces diressero la loro offensiva contro i civili congolesi. L’esercito della Repubblica Democratica del Congo, chiamato a difendere i suoi cittadini dalla minaccia terroristica, mise allora in atto un assalto che di fatto contribuì a imprimere una nuova, violenta forma al gruppo dei dissidenti ugandesi.
Nel 2015 infatti il governo del Congo giocò un ruolo fondamentale nell’arresto dell’allora capo delle ADF, Jamil Mukulu, che proprio a causa delle milizie congolesi fu costretto a spostarsi in Tanzania, dove fu arrestato ed estradato in Uganda per essere sottoposto a processo. Il posto vacante lasciato dalla cattura di Mukulu fu velocemente occupato da Musa Seku Baluku, protagonista della decisa conversione delle Allied Democratic Forces agli obiettivi dello Stato Islamico.
Alcune fonti fanno risalire il primo coinvolgimento delle ADF con l’azione terroristica di Al Qaeda al 2012, mentre per altri Baluku avrebbe giurato fedeltà all’IS non prima del 2016. Ma è solo tre anni dopo che il rapporto tra le due forze armate islamiche si concretizza agli occhi di tutto il mondo. Nel 2019 infatti lo Stato Islamico parla per la prima volta di una sua “Provincia dell’Africa Centrale“, rivendicando un attentato delle ADF nella Repubblica Democratica del Congo. L’evento è da intendersi come un riconoscimento delle Allied Democratic Forces entro le file dell’IS. Sarà poi un intervento dello stesso Baluku a togliere ogni dubbio: nel 2020 il leader afferma che le ADF hanno cessato di esistere in maniera indipendente, optando per una completa affiliazione allo Stato Islamico.
Molti media scelgono oggi di mantenere comunque separate le due organizzazioni terroristiche islamiche, riconoscendo tra le diverse anime delle ADF le ali contrarie all’unione con l’IS e alla leadership di Baluku.
Una nuova stagione di attentati in Uganda
Nel 2021 l’attività delle ADF è tornata a terrorizzare l’Uganda. Prima dell’attentato del 16 novembre, la capitale Kampala era stata scossa dall’esplosione del 23 ottobre, che ha provocato la morte di una persona. Un secondo attacco si è verificato a distanza di due giorni, il 25 ottobre, quando un kamikaze ha azionato una bomba all’interno di un autobus. Solo il primo attentato sarebbe da ricondurre con certezza alle Allied Democratic Forces.
Secondo l’intelligence dell’Uganda sono almeno tre i motivi dei rinnovati interessi delle ADF nel Paese. Il sospetto è innanzi tutto che l’ISIS punti a costituire in Uganda un califfato fedele alla Shariʿah, la legge islamica, in modo da rafforzare ulteriormente quella sua Provincia dell’Africa Centrale. La seconda possibile motivazione risiede invece nella difficile situazione politica di molti stati Africani, vessati da dittature, rapporti di potere poco stabili e ingerenze estere pericolose. Il rischio è che qualche stato straniero stia sovvenzionando le ADF perché queste destabilizzino l’economia ugandese e facciano così perdere terreno al governo.
Infine è possibile che gli ultimi attentati siano in realtà una vendetta delle ADF contro lo Stato dell’Uganda, colpevole di aver ucciso a giugno un membro del gruppo armato coinvolto nel fallito attentato alla vita del Ministro del Lavoro Katumba Wamala.
La reazione di Kampala
La situazione a Kampala resta tesa e imprevedibile. Le possibilità che si verifichino altri attentati è alta: qualunque sia la motivazione dietro agli attacchi delle ADF non c’è motivo di sperare in una tregua. Nel frattempo il governo britannico ha aggiornato le indicazioni rispetto alle condizioni di viaggio in Uganda, consigliando ai suoi cittadini di evitare la zona perché è probabile che si verifichino nuove efferatezze. Anche molti cittadini ugandesi stanno cercando di abbandonare la capitale nella speranza di salvarsi dagli ormai quasi certi attacchi futuri.
In questa condizione di confusione e terrore l’azione della polizia governativa procede con decisione. Giovedì 18 novembre i militari di Yoweri Museveni hanno ucciso cinque uomini che sarebbero stati coinvolti nell’attentato del martedì precedente. Si è inoltre aperta una caccia all’uomo per individuare e catturare un sesto religioso islamico, accusato di essere implicato nella formazione e nella radicalizzazione dei tre uomini che si sono fatti saltare in aria a Kampala.
L’incertezza è calata sulla capitale, mentre i cittadini rimasti aspettano con terrore una nuova detonazione, una nuova ferita aperta nel cuore dell’Uganda.