Dario Argento e la Trilogia degli animali: un percorso a tinte zoomorfiche firmato dal Maestro dell’horror

Cinematograficamente parlando, le storie dell’orrore sono una materia abbastanza ostica da trattare, un’arma (tanto per restare in tema) a doppio taglio. I registi del genere hanno una responsabilità sostanziale nei confronti del pubblico, poiché cadere nell’ovvio o, addirittura, nel ridicolo, è fin troppo facile. Tuttavia per moltissimi, come Dario Argento, uno dei maestri del brivido per eccellenza, questo spiacevole risvolto non può essere affatto contemplato.

Dall’inizio della sua carriera fino ai risultati più recenti, Argento è riuscito a collezionare pellicole che hanno fatto la storia del cinema horror, incantando intere generazioni. Per ogni suo film si potrebbe parlare davvero a lungo. Assai numerosi sarebbero gli elementi da considerare, tantissimi i dettagli da descrivere e altrettante le trame intricate da sciogliere. Perciò la scelta di oggi ricade su una serie di film, tre in particolare, accomunati da riferimenti legati all’affascinante mondo animale.

Si tratta della cosiddetta Trilogia degli Animali, composta da L’uccello dalle piume di cristallo (1970), Il gatto a nove code (1971) e 4 mosche di velluto grigio (1971). L’obiettivo dell’articolo sarà cercare di ripercorrere l’evoluzione narrativa e strutturale di ognuno di questi tre film, cogliendo l’occasione per poter riconfermare la sapienza di uno dei più grandi registi che il nostro cinema possa vantare. Un mix, dunque, di storie da brivido, colonne sonore e interpretazioni attoriali davvero degne di nota.

L’uccello dalle piume di cristallo

Dario Argento ha appena compiuto trent’anni quando dirige il suo primo film, nonché primo capitolo della trilogia di cui ci occupiamo. Proprio l’anno precedente, nel 1969, fonda insieme a suo padre una società di produzione, la S.E.D.A Spettacoli, con la quale avvia definitivamente la sua carriera. Così nel 1970, il regista romano mette a punto la sceneggiatura di L’uccello dalle piume di cristallo, liberamente tratta dal romanzo di Fredric Brown, La statua che urla. In realtà l’idea di trarre un film dal suddetto romanzo era stata affidata a Bernardo Bertolucci, il quale tuttavia sceglie di incaricare il promettente Dario Argento, che aveva collaborato con lui per il soggetto di C’era una volta il West, noto film del regista Sergio Leone.

Con questa grande responsabilità, il regista si dedica anima e corpo al film e a ogni suo singolo dettaglio, dilatando notevolmente i ristretti tempi previsti per la sua realizzazione. Il genere giallo, a cui senz’altro la pellicola appartiene, è, tuttavia, solo il punto di partenza di un lungometraggio che si dirige sull’horror, arricchito peraltro da sfumature oniriche e sequenze fotografiche disturbanti.

La trama è molto intricata e scandita da una serie di efferati delitti ad opera di un assassino misterioso. Il cosiddetto uccello dalle piume di cristallo, che nella realtà è una comune gru coronata, è il filo conduttore della storia e, contemporaneamente, il punto di scioglimento della matassa. I protagonisti sono Sam Dalmas, scrittore che ha trovato lavoro in un istituto romano di scienze naturali, e la sua fidanzata Giulia. I due, dopo aver assistito ad un’aggressione in una galleria d’arte, iniziano una serie di pericolose indagini, che li porterà ad esporsi a grossi rischi e tensioni che dureranno fino alla fine. Gli ultimi frammenti sono un tripudio di stupore e colpi di scena, chiudendo degnamente un film che ha fatto la storia.

Il gatto a nove code

All’inizio del 1971, con alle spalle il recente successo del suo primo film, Dario Argento prosegue la Trilogia degli Animali con il secondo capitolo, intitolato Il gatto a nove code. Anche per questo lungometraggio siamo pienamente nel genere giallo, con alcune aperture più estreme verso l’horror. La colonna sonora è ancora una volta affidata al maestro Ennio Morricone: le sue musiche, raffinate ma estremamente terrificanti, completano alla perfezione il progetto cinematografico di Argento.

I protagonisti stavolta sono un giornalista, Carlo Giordani, e Franco Arnò, enigmista cieco, un tempo anch’egli giornalista. I due indagano sulla morte di un genetista, il dott. Calabresi, impegnato in alcuni studi sulla sindrome XXY. Durante le ricerche, parallele a quelle della polizia, altri brutali omicidi complicano ulteriormente la vicenda, avendo tutti, pare, come movente certe particolari ricerche scientifiche.

Riassumendo, le tracce sono queste: i cinque ricercatori più Anna fanno sei; più Bianca Merusi fanno sette; le foto sparite… otto; e il tentato furto all’istituto… nove! Nove vie da seguire… un gatto a nove code.

Le nove code del gatto sono quindi le piste da seguire per tentare la risoluzione dell’intricato rebus. Il finale accelera decisamente il ritmo dell’intera pellicola, portando subito lo spettatore di fronte all’assassino, in un vortice di sangue e paura difficile da dimenticare.

4 mosche di velluto grigio

Nel dicembre del 1971, quindi nello stesso anno del film precedente, Dario Argento dirige il terzo e ultimo capitolo della Trilogia degli animali, dal titolo 4 mosche di velluto grigio. Due mesi sono bastati al regista romano per creare un altro capolavoro del nostro cinema. Un lungometraggio che ha coinvolto diverse città italiane, fra cui Roma e Milano, ma anche Torino e Spoleto. Per di più le ambientazioni che il film ci racconta spesso derivano dalla mescolanza di alcuni luoghi di diverse città, che diventano quasi sempre una sola agli occhi dello spettatore.

Al centro della pellicola ora non ci sono scrittori né tantomeno giornalisti, ma c’è Roberto Tobias, batterista di un gruppo rock. Questa volta, già in apertura, il pubblico viene coinvolto in un clima di tensione e mistero, a causa di un volto sconosciuto che pedina Tobias. L’incontro faccia a faccia tra i due, che si conclude con una messa a tappeto dell’aggressore, è il motore che dà il via alla storia. Anche qui siamo davanti ad una trama fitta di eventi, tutti collegati tra loro. Ogni evento inoltre è inframezzato dalle note di una colonna sonora che per la terza volta consecutiva è affidata a Morricone. Tuttavia, tra lui e Argento nascono delle controversie, che li portano a rompere la collaborazione. Solo molti anni dopo, nel 1996, Morricone tornerà a comporre per un film del regista, La sindrome di Stendhal.

Insomma, anche 4 mosche di velluto grigio pullula di indagini sui generis, investigazioni private, sospetti e omicidi  dall’inizio alla fine, insieme all’evidente presenza di sfumature oniriche che ne accentuano il fascino. Un tripudio di ferocia e raffinatezza abbellisce poi le vesti dell’assassino, insospettabile e misterioso come solo Dario Argento riesce a creare.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.