Quando c’è di mezzo il denaro, la democrazia diventa improvvisamente un bene sacrificabile. È quello che sta succedendo in questi ultimi mesi del 2021 in Sudan, paese sferzato da anni da instabilità economica e caos politico.
Lo scorso 25 ottobre l’esercito ha infranto le timide promesse di una transizione pacifica verso un governo pienamente civile arrestando e imprigionando (in carcere e poi nella sua abitazione) il presidente Abdalla Hamdock, incaricato di trascinare il Paese verso lidi più democratici. I militari e il loro leader Abdel Fattah Al Burhan si sono presentati alla nazione descrivendo l’escalation di violenze perpetrate, tra cui spari sui manifestati, come un passaggio di consegne necessario per evitare un bagno di sangue. Secondo Al Burhan, infatti, l’ormai ex presidente aveva chiaramente inneggiato alla risposta violenta della popolazione contro l’esercito, creando le condizioni per una guerra civile che Al Burhan si starebbe impegnando ad evitare.
E in effetti un grido d’aiuto era stato emesso dal Presidente in procinto di essere arrestato, ma non violento, senza auspici per una guerra interna al Sudan: solo il lamento stridente della speranza democratica che si aggrappa alla forza del popolo prima di arrendersi. «Chiediamo al popolo sudanese di protestare usando tutti i mezzi pacifici possibili»: queste le parole di Hamdock, affiancato dalla ministra degli esteri Mariam am-Mahdi. Così il popolo ha reagito, combattivo come si è sempre dimostrato, scendendo in piazza a manifestare. Ma, al posto del dialogo, ha trovato i fucili dell’esercito puntati contro.
L’inizio della dittatura dell’esercito
Il Sudan possiede un passato tormentato di disordini politici e sociali, collegati alla figura politica del colonnello Omar Al-Bashir.
Lo stato del Sudan acquisisce l’indipendenza dal controllo imperialistico britannico nel 1956. Sono anni difficili per il neonato Stato: le risorse petrolifere non mancano, soprattutto nel sud del Paese, ma abbondano anche le divisioni etniche e religiose. Lo strapotere dell’esercito condiziona con violenze e brogli la vita politica e sociale della nazione, che sprofonda nella guerra civile.
È in questa situazione drammatica che emerge la figura del colonnello Al-Bashir. Nel 1989 diviene leader del Revolutionary Command Council for National Salvation, partito a guida dello Stato, dando il via a più di trent’anni di dittatura. Fino al 2019 Al-Bashir sarà rieletto varie volte nell’aria viziata della costrizione e del broglio, come hanno spesso denunciato gli oppositori al regime.
Il potere di Al-Bashir
Come suoi primi atti da presidente, Al-Bashir sciolse il parlamento e mise al bando i partiti politici, limitazione di cui concederà la fine solo con la nuova costituzione del 1998.
Questi sono anche gli anni della scommessa islamica del governo. L’introduzione della Shari’a (legge islamica) nel 1991 inasprisce ulteriormente le divisioni con il sud del Paese, a maggioranza cristiana.
In questo periodo vengono anche perpetrate terribili violenze contro la popolazione e specie nella zona del Darfur, dove soventi sollevazioni popolari inducono l’esercito a intervenire con la forza. Nel 2009 l’International Criminal Court emette un’accusa nei confronti di Al-Bashir per crimini di guerra e contro l’umanità, aggiornata nel 2010 con l’aggiunta dell’imputazione per genocidio.
Nel 2011 la situazione umanitaria sembra raggiungere una svolta positiva. Infatti a gennaio viene concesso un referendum per la scissione del Sud Sudan dal resto del Paese. I risultati ottenuti non lasciano dubbi: 98,81% dei votanti favorevoli, 1,19% contrari, con un affluenza stimata del 90% degli aventi diritto. Al-Bashir accetta l’esito del referendum e le procedure di scissione sono avviate.
Le proteste del 2019
Mentre il Sud Sudan compie un passo importante verso i diritti, la democrazia e la libertà, il Sudan versa ancora in condizioni critiche. La crisi economica in atto da tempo è acuita dalla mancanza dei beni petroliferi del sud e i disordini sono all’ordine del giorno. Emblema di questa tragica condizione sociale è la protesta dei cittadini sudanesi, che nel 2019 scendono nelle strade invocando la fine del regime. Un colpo di coda dell’esercito, che strategicamente accoglie le richieste dei manifestanti, depone il dittatore Al-Bashir.
L’impressione è che si tratti di una perfetta applicazione del famoso concetto gattopardiano: perché «tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». L’esercito è interessato a mantenere il suo status privilegiato nel Paese e tenta il compromesso con il popolo in rivolta pur di mantenerlo. Ma nella trattativa sottovaluta la decisione dei sudanesi: la goffa auto-proclamazione del ministro degli Esteri Ibn Auf, che non si preoccupa nemmeno di parlare con i manifestanti, non convince la folla delle dubbiose intenzioni del neo-formato governo. Nemmeno il tentativo di sostituire Ibn Auf, che deve dimettersi 12 aprile, con il generale Abdel Fattah Al Burhan serve a calmare i manifestanti: il regime deve cadere, in ogni sua parte.
Le particolarità economiche del Sudan
Un articolo de L’Internazionale pone l’accento sulle ragioni economiche che spiegherebbero il colpo di mano da parte dell’esercito sudanese.
I militari hanno grossi interessi a mantenere il loro storico controllo sulle industrie del Paese, evidentemente fonte di ingente arricchimento. Questo assetto della produzione economica non è per nulla favorevole al benessere pubblico: le industrie controllate dall’esercito possiedono grossi sgravi fiscali e facilitazioni, a svantaggio dei privati che sono invece soggetti a normale tassazione.
Risulta chiaro che questo monopolio dell’esercito nel settore industriale sia un grosso limite alla ripresa economica, preludio di una stabilità sociale e politica più solida. Ed è altrettanto chiaro che tutti i tentativi di alleviare il peso degli investimenti militari in economia non siano ben accetti da parte di un esercito che può contare su una grossa capacità offensiva nei confronti del traballante governo sudanese.
A dicembre 2020 il presidente Habdock aveva attaccato apertamente l’esercito e la sua esagerata presenza in economia, affermando la necessità di una distinzione tra investimenti militari nel settore della difesa e quelli nell’industria produttiva. Mentre lo Stato potrebbe accettare i primi, i secondi svantaggiano troppo le aziende private e devono essere oggetto di radicali riforme.
Le possibili motivazioni del golpe di ottobre
Le dichiarazioni di Hamdock furono colte dall’esercito in tutto il loro scomodo significato: al termine del periodo di transizione, alla nascita di un governo interamente civile, i militari avrebbero perso la loro posizione agevolata nella produzione industriale del Paese.
Ovviamente l’esercito non l’ha presa bene: la parziale apertura di Al Burhan alla trattativa per costringere anche le aziende militari a pagare le tasse delle industrie private è stata spazzata via dal golpe di ottobre, che ha di fatto annullato i rischi di una diminuzione dei possedimenti industriali dei militari.
Facciamo il punto
La situazione in Sudan rimane tesa: ad oggi sono in corso delle trattative con il presidente deposto Hamdock che vedono coinvolti mediatori dall’Egitto e dall’Unione Europea per la formazione di un nuovo esecutivo.
Nel frattempo l’esercito risponde con violenza alle manifestazioni dei cittadini contro il Governo militare instauratosi nel Paese. Il 13 novembre una protesta pacifica si è conclusa tra gli spari da parte delle milizie di Al Burhan, che hanno provocato la morte di 6 persone, tra cui un ragazzo di 13 anni. Secondo un avviso pubblicato sulla pagina Facebook di Central Committee of Sudan Doctors (CCSD) i civili sarebbero stati raggiunti dai colpi di arma da fuoco durante il corteo e poi deceduti in ospedale. Sale così ad almeno 21 il totale delle vittime dall’inizio del golpe.
Il CCSD parla inoltre di “noumerous critical injures” tra i partecipanti dei cortei pacifici che in questi ultimi giorni sono stati organizzati in tutto il Paese, accusando le forze militari sudanesi di ostacolare il trasporto dei feriti nelle strutture ospedaliere. In più nei giorni scorsi l’esercito avrebbe fatto irruzione nell’ospedale di Al Arbaeen, attaccando i medici in servizio, i manifestanti lì ricoverati e le loro famiglie ed eseguendo alcuni arresti.
La situazione politica in Sudan appare ancora estremamente drammatica. Il Paese rimane dunque in attesa, protestando e combattendo per la sua libertà, resistendo agli scontri sanguinosi con l’esercito, bramando una meritata democrazia.
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