La disabilità è spesso considerata ai limiti di un tabù e le persone con disabilità come personaggi sfortunati da cui tenersi il più lontano possibile o da trattare come frammenti di vetro fragilissimi, con una vena di pietismo a volte ipocrita. Difficilmente si arriva a riconoscere nelle diversità motorie o mentali di queste persone la possibilità di un dialogo tra pari. È come se chi possiede una disabilità fosse da considerarsi solo l’ombra di un essere umano, per cui impietosirsi ma non con il quale relazionarsi.
Questa tanto errata quanto diffusa concezione della disabilità permea la nostra quotidianità, rendendo sempre più difficile raggiungere l’inclusione sociale. Così gli esempi di discriminazione si moltiplicano, a partire dai vertici più alti del potere mondiale.
I fatti della Cop26
Lo scorso 31 ottobre i più grandi leader della terra si sono riuniti nell’uggiosa Glasgow per tentare di recuperare il (poco) recuperabile in fatto di clima. Fa sempre un certo effetto osservare tanto potere promettere all’unisono il cambiamento ecologico che il pianeta sta richiedendo a gran voce.
La Cop26, tra qualche accordo firmato e tanti «bla bla bla», si è concluso il 12 novembre, sollevando non poche critiche. I ragazzi di Greta Thunberg hanno gridato arrabbiati che quello che si sta facendo non è abbastanza. I media di tutto il mondo hanno denunciato l’ipocrisia dei potenti della terra, che hanno raggiunto Glasgow a bordo di 400 aerei, certamente poco funzionali all’abbassamento delle emissioni di CO2. Molte proteste si sono alzate anche contro Russia, Cina e India, che hanno posticipato il limite temporale entro il quale raggiungere emissioni zero.
E poi c’è stato il caso di Karine Elharrar, ministra israeliana, che ha aggiunto vergogna e contraddizioni a questo summit dalla credibilità già traballante. Elharrar soffre di distrofia muscolare e si muove grazie a una carrozzina a rotelle. All’arrivo a Glasgow la ministra ha dovuto fare i conti con l’inadeguatezza delle strutture e degli accessi, che le hanno impedito di prendere parte alla conferenza. Barriere architettoniche che mascherano barriere culturali e che dimostrano ancora una volta la profonda e tragica emarginazione che le persone disabili vivono nella società attuale.
Ed è drammaticamente ironico che proprio la ventiseiesima conferenza sul clima abbia fornito l’icastico esempio di questa emarginazione. Risale al 2005 la definizione dei tre pilastri fondamentali dello sviluppo sostenibile, che prevedevano l’impegno congiunto di tutte le potenze del mondo in economia, nella preservazione dell’ambiente, e nel rispetto della società e della sua varietà. Nel 2021, quanti di questi pilastri risultano abbattuti?
Un linguaggio inadeguato
L’imbarazzante disguido che ha coinvolto Karine Elharrar a Glasgow non è un caso isolato di colpevole disattenzione. Si tratta piuttosto di un episodio figlio del suo tempo, nato dal ventre di una diffusa superficialità nella concezione e nella rappresentazione sociale delle persone con disabilità.
In un suo intervento Giampiero Griffo, coordinatore del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, ripercorre le discriminazioni che coloro che possiedono una disabilità fisica o mentale sono costretti a sopportare, analizzando le sue concretizzazioni nel linguaggio attraverso il quale la società rappresenta questa categoria. «Spesso il mondo delle persone con disabilità è visto come un tutt’uno nel quale si presuppone una compattezza interna, che di fatto non esiste» afferma Griffo all’inizio della sua trattazione.
Qualsiasi classificazione sociale (“i disabili”, “i ricchi”, “i poveri”) è da intendersi sempre come una banalizzazione della realtà. Il valore semplificativo delle categorizzazioni viene spesso dimenticato nell’uso quotidiano e mediatico della lingua: “disabili”, “handicappati”, “diversamente abili” sono tutte diciture generalizzanti che hanno l’enorme difetto di porre l’attenzione sulla condizione prima che sulla persona, alimentando lo stigma. Per Griffo è necessario proporre una riforma del linguaggio che definisce le persone con disabilità, promuovendone un uso più consapevole nel rispetto della varietà umana.
La rappresentazione della disabilità
Ignorati, disumanizzati, considerati pesi sociali prima ancora che persone. Non sorprende che la nuvola di discriminazione che si addensa attorno alla condizione di disabilità sfoci in una mancanza generale di sensibilità, persino in quegli eventi, come la Cop26, che pretendono di essere il baluardo di uno sviluppo che dovrebbe essere umano, oltre che sostenibile. Ma questa insensibilità verso i bisogni e le caratteristiche delle persone disabili non è dovuta solo a una scorretta rappresentazione linguistica della categoria.
La terminologia banalizzante e generalizzata di cui facciamo uso quotidianamente è solo una faccia di una più complessa realtà discriminatoria. Osservando la nostra quotidianità infatti si moltiplicano gli esempi di discriminazione verso le persone disabili. Uno su tutti è quello delle targhette dei bagni pubblici, in cui l’icona con la carrozzine a rotelle è quasi sempre apposta accanto a quella “delle donne”, quasi a negare il riconoscimento della sessualità della persona con disabilità.
L’ascolto, la rappresentazione nei programmi televisivi, il coinvolgimento nelle discussioni che riguardano problemi comuni sono elementi che troppo spesso vengono meno nei confronti delle minoranze. Così spesso accade che si parli di disabilità (in TV, nei giornali, nei broadcast) ma non siano le persone disabili a parlarne. Una situazione simile avviene anche nei film, dove molto spesso la disabilità è rappresentata da interpreti non disabili, come nell’indimenticabile film francese Quasi amici che vedeva Francois Cluzet impegnato nel ruolo di un uomo paraplegico. L’impressione è che la maggioranza della popolazione prevarichi il diritto di parola delle minoranze, ignorandone i bisogni e i consigli. Una parte della popolazione è dunque pronta a parlare, ma l’altra non è disposta a porsi in ascolto.
Una possibile soluzione
Un dialogo aperto a tutte le parti sarebbe forse la mossa vincente per promuovere una società finalmente disponibile all’accoglienza delle sue diversità. Una società dunque che sappia garantire alle minoranze una vita dignitosa e che riconosca agli individui la loro specificità di essere umani. Questa dignità non equivale sempre all’aiuto spassionato nei momenti di difficoltà, ma si edifica a partire dalla costruzione di situazioni e strutture che evitino l’insorgenza stessa delle difficoltà.
Solo così sarà possibile porre tutte le componenti sociali sullo stesso piano pur nel riconoscimento e nella valorizzazione delle loro caratteristiche. Così afferma Giampiero Griffo:
«Muovendomi in sedia a rotelle, ho una disabilità quando il luogo in cui mi muovo ha dislivelli in verticale superabili solo con scale. La disabilità non è un fattore soggettivo […], bensì è causato da una società che non ha progettato per tutti»
La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità
Nel dicembre 2006 La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità sancì un passo importante verso l’affermazione di una società più rispettosa degli individui disabili.
Fin dalle righe introduttive si percepisce chiaramente lo spirito di inclusione e giustizia sociale che animò la stesura del documento: gli Stati firmatari riconoscono la dignità e la specificità umana delle persone con disabilità, impegnandosi a garantire un’accessibilità più equa e ponendo l’accento sulla necessità di promuovere la partecipazione di queste persone alla vita pubblica, sociale, politica e culturale.
L’esistenza di questo testo dimostra che linee guida per la realizzazione di una società più inclusiva sono già state tracciate. D’altra parte la scarsa eco di cui questo documento gode e la scarsissima applicazione che è stata fatta dei principi in esso contenuti dimostra l’incapacità della nostra attualità di accogliere l’argomento disabilità tra i suoi focus, tanto che anche alla Cop26, anche nel 2021, essere una persona disabile significa restare esclusi.
Un commento su “Le sfide della disabilità: Karine Elharrar e i fatti della Cop26”