La catena di abbigliamento Primark ha recentemente lanciato la linea autunno-inverno dedicata alla gravidanza, presentandola al pubblico come parenthood collection, una collezione pensata per la genitorialità, in cui, seppur proponendo capi premaman, non viene menzionata la maternità. Poco è bastato per scatenare una discussione sui social media, Instagram fra tutti, che solo un decennio fa probabilmente non avrebbe mai avuto neanche luogo. La dichiarazione, infatti, ribadendo la parola “genitori” denota la volontà da parte della multinazionale di intendere la gravidanza come un’esperienza aperta anche alla comunità LGBTQ+.
Da un lato, la famosa catena è stata accusata di un politically correct tutto sommato non pertinente, mentre dall’altro c’è chi ha apprezzato l’utilizzo di un linguaggio più inclusivo. I commenti al post di presentazione su Instagram della nuova linea non si sono fatti attendere, dimostrando ancora una volta una forte polarizzazione sul tema. Tra questi, molti utenti hanno visto nell’idea di Primark la volontà di cancellare le donne e le madri come categoria degna di identità, rivendicando la dimensione biologica della maternità e ritenendo quindi il post offensivo nei confronti delle donne.
C’è però chi replica chiedendosi che cosa ci sia di poco rispettoso nel chiamare le mamme “genitori”, e più in generale che cosa ci sia di male nell’utilizzo di un termine generico se percepito più inclusivo da parte della comunità LGBTQ+. Il concetto di maternità diventa in questo senso qualcosa che non riguarda soltanto il genere femminile, dato che anche le persone transgender e non binarie potrebbero rimanere incinte e dunque partorire.
Una guerra culturale sulle persone incinte
Il caso di Primark si inserisce dentro un quadro di riferimento più ampio, in cui la questione delle “persone incinte” è una preoccupazione che va al di là del cavalcare l’onda del momento o di una possibile operazione di marketing. L’anno scorso è stato aperto un nuovo ospedale specializzato nel parto nell’Upper East Side di New York City, il cui nome, Alexandra Cohen Hospital for Women and Newborns, potrebbe sembrare innocuo o riferito alla maggior parte delle persone. Non tutti, però, la pensano così: per molti, suggerire che un ospedale dove nascono i bambini sia solamente per le donne è offensivo.
In questo contesto, si è espressa Louise Melling, vicedirettrice legale dell’American Civil Liberties Union, che guida progetti sui diritti delle donne e sui diritti LGBTQ+:
Prima di tutto, se stiamo parlando di ‘persone incinte‘, quel linguaggio dice agli uomini transgender e alle persone non binarie ‘vi vediamo’. Ancora più importante, non ci comporteremo in un modo che mette a disagio quella persona, che segnala loro discriminazione e non accoglienza. E questo è incredibilmente importante quando pensiamo ai tipi di discriminazione che continuano a essere pervasivi contro le persone transgender e le persone non binarie.
Le esperienze delle persone transgender in cerca di assistenza sanitaria, che spesso hanno un reddito inferiore a causa di tutte le discriminazioni che devono affrontare, rivelano un meccanismo di rifiuto e pregiudizio nei loro confronti. La realtà, infatti, è che non sono solo le donne che, per esempio, necessitano di assistenza per aborto o gravidanze. Non sono solo le donne a partorire e non sono solo le donne che hanno bisogno di una mammografia, un pap test e altre cure.
Linguaggio inclusivo, un’ossessione progressista o una reale necessità?
La realtà è che la scintilla del dibattito si riaccende ogni qualvolta che un brand, un articolo di giornale o una pubblicità utilizza termini inclusivi, poiché si pensa e si teme allo stesso tempo che in nome di una minoranza di persone potenzialmente offendibili e quindi vulnerabili si neutralizzi quella che è invece la realtà delle cose per la maggior parte delle persone. Ma le linee guida stesse del Parlamento Europeo sulla Neutralità di Genere nel Linguaggio sottolineano come un linguaggio neutro o inclusivo sotto il profilo del genere va ben oltre il concetto di “politicamente corretto”.
Qeste ustanze sono infatti eminentemente politiche, e il linguaggio inclusivo è legato all’attivismo politico, esempio ne è il dibattito italiano sulle etichette “genitore 1- genitore 2”, usate dalla politica conservatrice che accusa la sinistra vicina alle istanze LGBT+ di voler cancellare la mamma e il papà in nome di una scelta ideologica. In questo contesto, tramite un atto politico, la catena inglese Primark ha proposto l’ennesimo spunto per poter riflettere su cosa sia il linguaggio inclusivo e quali siano gli effetti che ha sulla realtà. Le questioni sul linguaggio inclusivo sono quindi uno specchio molto particolare che riflette parte del cambiamento del mondo.