Io e (il) Mostro è un romanzo di Roberta Guzzardi uscito il 5 ottobre, che racconta un’esperienza vitale parlando di tematiche e problemi universali. Protagonisti sono l’autrice stessa, una ragazzina e il mostro. A questi ultimi due personaggi sono dedicate delle vignette, disegnate precedentemente e poi raccolte nel libro. Nelle loro conversazioni emerge la saggezza filosofica del mostro, che dovrebbe rappresentare le nostre ombre: è la parte di noi che un po’ temiamo e che crediamo di dover nascondere. In realtà è la parte essenziale.
Roberta Guzzardi si è laureata in psicologia a Roma, ha fatto la scuola di specializzazione ad Arezzo e ha ottenuto una licenza in Programmazione Neuro Linguistica. Si occupa di psicoterapia e disegna. Ha creato un sito, dove, unendo le sue due passioni, riesce a “divulgare concetti di psicologia in un modo più diretto, chiaro e d’effetto rispetto a quello che si ha utilizzando soltanto le parole”.
Nel suo libro Io e (il) Mostro parla di un vuoto che spinge all’atto creativo: com’è nata l’idea di dare vita alle vignette del mostro e della ragazzina? E cosa l’ha spinta a scrivere il libro?
Il Mostro e la ragazzina nascono a seguito di una challenge per illustratori alla quale partecipai nel luglio del 2019 su Instagram. Consisteva nel dover fare una illustrazione diversa ogni giorno in base alle parole scelte dalla pagine che aveva lanciato la challenge.
Mi venne naturale disegnare i due personaggi, che poi si sono evoluti nel loro rapporto e nelle loro specifiche caratteristiche, durante tutto il mese di luglio.
È stato quindi più per “diletto” che altro. Volevo disegnare e decisi di dar vita a questo essere ingombrante, ma in fondo “amichevole” che intanto sentivo in qualche modo parte di me, da molto, molto tempo.
Credo che la sua esperienza possa essere utile per tante altre persone, dando forma a problemi comuni. Ha iniziato a disegnare e a scrivere, in prima battuta, per altri o per se stessa?
Ho sempre disegnato, sin da bambina, poi ho abbandonato, presa da altri percorsi personali e professionali ed infine ho ripreso, negli ultimi anni, soprattutto per dare sfogo e forma a molte emozioni “difficili” e un po’ incastrate che mi portavo dentro. È stata primariamente una necessità interiore che ha avuto poi, inaspettatamente, impatto anche sulle persone che adesso seguono i miei canali e che si ritrovano rappresentate nei miei lavori.
Parla di ciò che ci sentiamo spesso in dovere di fare, di essere, delle mete che dobbiamo raggiungere, per sentirci apprezzati e accettati dagli altri e da questa società, ma prima di tutto forse da noi stessi. Secondo lei, come si può cercare di uscire da questa trappola?
Non penso sia possibile uscire da questa “trappola” senza l’aiuto degli altri e senza il costante feedback che le persone intorno a noi ci rimandano. Quando ci perdiamo in obiettivi, cose da “dover” realizzare nell’illusione di raggiungere la felicità, standard che ci autoimponiamo per poterci attribuire un valore, sono le altre persone, chi ci vuole bene, chi ci apprezza per ciò che siamo indipendentemente da tutto il resto, a ricordarci chi siamo davvero e che certi “arrivismi” riescono a regalarci gioia e sapore nella vita solo se alla base di tutto c’è un “per chi” facciamo le cose e non un “per cosa”.
A questo proposito, le relazioni con gli altri sono fondamentali, ma gli altri possono essere anche fonte di un confronto estenuante e di giudizi – o quelli che immaginiamo siano giudizi – cosa consiglia di fare? O meglio cosa il Mostro ci consiglia di fare?
Il Mostro conosce una verità molto importante, che spesso invece io stessa tendo a lasciarmi sfuggire (come tutti), e cioè che quando qualcuno ci critica, o ci giudica, in realtà, non sta dicendo nulla su di noi, ma molto su se stesso.
Una volta lessi in un libro di una pratica serale che mi pare fosse degli aborigeni australiani (non ne sono certa, ma il concetto è comunque valido) secondo la quale questi, a fine giornata, si riunivano intorno a un fuoco e si guardavano gli uni con gli altri, alla ricerca della persona che più generava antipatia, critiche, o emozioni negative. In essa, loro dicevano, si manifestava in realtà, una qualche parte di sé che si voleva censurare e che si faticava ad accettare. Così le critiche che facciamo sugli altri, i giudizi con cui etichettiamo le persone intorno a noi, non svelano nulla su queste persone, ma dicono molto, invece, su quanto abbiamo ancora da elaborare di noi stessi. Ecco, se riuscissimo a ricordare questa piccola grande verità, il mondo sarebbe un po’ più facile da vivere, e così le relazioni e il lato “scomodo” di esse.
Ho apprezzato moltissimo il fatto che il Mostro, quella che dovrebbe essere la parte peggiore di noi, da nascondere e da tenere sotto controllo, sia poi alla fine la parte più saggia di noi. Lei cosa ne pensa? È questo l’effetto che voleva trasmettere?
È esattamente questo quello che volevo trasmettere: il concetto secondo cui, le nostre ombre, seppur spaventose e inquietanti quando ancora fatichiamo a entrarci in contatto, siano in realtà una parte essenziale della nostra personalità. Non è solo una mia idea, è il concetto di fondo di cui parlò Jung e ripreso in diverse forme e accezioni da successive elaborazioni di tipo psicologico e anche spirituale.
Il punto è che, non sempre le cose che valutiamo male di noi stessi sono davvero poi così male, dentro noi c’è un potenziale enorme di creatività, amore, talenti, che spesso sono nascosti sotto i disperati tentativi di autocensura che mettiamo in atto nel corso della nostra vita a causa dei tanti condizionamenti che riceviamo sin da quando siamo piccoli. Credo che imparare a dialogare, e decriptare il linguaggio che hanno i nostri mostri interiori sia fondamentale per scoprire che, spesso, quello che vediamo come negativo, sia solo una parte di noi con la quale non abbiamo ancora capito come relazionarci, ma che ha molte, molte cose da dirci su chi siamo davvero, cosa vogliamo e in che direzione abbiamo bisogno di andare per trovare il nostro posto nel mondo.
Nell’ultimo capitolo di Io e il mostro, in cui parla del Covid scrive “l’essere umano […] sia sempre capace di fare qualcosa di miracoloso: trovare il senso nell’insensato e, se questo non fosse possibile, allora crearlo”. Che cosa potrebbe averci portato di buono il Covid?
Ho sentito spesso dire alle persone, amici, o anche sconosciuti con cui magari mi è capitato di fermarmi a chiacchierare, che in fondo il periodo dei lockdown e tutto quello che ha portato, abbia condotto a una specie di “lentezza” interiore che, in qualche modo, è stata da molti apprezzata.
Un po’ come se davvero ci avesse costretti non solo a scendere dalle giostre velocissime sulle quali di solito ci troviamo, presi dai nostri lavori e dalle mille cose che dobbiamo fare, ma anche come se, questa discesa obbligata, ci avesse dato l’occasione di vedere, forse per la prima volta tanto nitidamente, che esiste un altro modo di vivere.
Chiaro, sarebbe molto più bello riuscire a mantenere la lentezza e la calma nelle nostre vite senza esservi costretti da una pandemia, ma credo che, come tutte le grandi crisi, anche quella del Covid abbia regalato diverse opportunità: quella di andare piano, quella di chiedersi davvero cosa fosse importante e cosa no, quella di “disintossicarci” da una serie di pratiche “sociali” che finiamo quasi per subire, come se dovessimo sempre fare delle cose ben definite per divertirci, essere socievoli, ecc ecc, ma anche quella di far venire fuori la creatività per adattarci a un mondo diverso da quello a cui eravamo abituati, per trovare soluzioni, nuove idee, anche lavorative.
Con questo non voglio dire che sia stata una buona cosa, o che non ci siano stati enormi effetti negativi e terribili conseguenze, voglio solo mettere l’accento sul fatto che l’essere umano sia davvero capace di far venire il buono dal male e che forse, si ha sempre la possibilità di provare a farlo, anche quando tutto sembra più grande di noi, come con il Covid.
Ama definirsi come “una Terapeuta che disegna”, come concilia queste due attività che potrebbero sembrare così distanti?
Le mie giornate sono cadenzate fra gli appuntamenti con i miei pazienti e i disegni che creo per lavoro, o per Instagram (quindi più per me stessa e le persone che mi seguono).
Da quando la professione da illustratrice ha avuto più riscontro all’esterno, ho scelto di mantenere un numero di pazienti limitato che mi permettesse di avere il tempo per disegnare ma che non mi facesse finire in un mondo troppo solitario e troppo “dietro le quinte”.
Anche se si tratta di due professioni diverse, non vivo bene portandone avanti solo una: se faccio solo la terapeuta, dopo un po’ sento la necessità viscerale di creare, di esprimermi e di disegnare cose che mi porto dentro e che in terapia non vengono messe in gioco (lì sono a servizio delle interiorità dei miei pazienti, non della mia); se invece disegno soltanto, senza fare terapie, dopo un po’ mi sento estrania al mondo, un po’ persa in un universo troppo a mia immagine e somiglianza, dove ho pochi riscontri con la realtà.
Perciò le due cose vanno insieme. Sempre. In alcune fasi della vita ho più bisogno di disegnare, in altre di occuparmi più precisamente di psicologia e di strategie pratiche di cambiamento, ma di certo ho capito che si tratta di due lati della stessa anima, e ho imparato nel tempo a farle convivere. Va bene cosi, almeno per adesso 🙂