“Ultimo” è un aggettivo che indica la posizione di un qualcosa in una serie. Ultimo in classifica, ultimo istante, ultimo respiro. Nel caso di specie, Victor Hugo parla di un ultimo, un devastante ultimo: l’ultimo giorno. Non un ultimo giorno qualunque, però, bensì l’ultimo giorno di un condannato a morte. In questo saggio-romanzo Hugo firma un manifesto contro la pena di morte, il sistema giudiziario e contro l’autorità che l’uomo stesso attribuisce a sé stesso di decidere della vita di un suo simile. Si tratta di un potentissimo inno alla vita.
Condannato a morte! Ebbene, perché no? Gli uomini, mi ricordo di averlo letto in non so che libro, dove c’era solo questo di buono, gli uomini sono tutti condannati a morte con rinvio indefinito
Chi?
Victor Hugo (1802-1885) fu uno scrittore instancabile. Lo scrivere, nero su bianco, riassumeva la sua intera esistenza, tutta la sua vita. Fin dalla prima giovinezza, Hugo si inserisce nel dibattito culturale del secolo. La sua produzione spazia: dalla poesia ai drammi, dai romanzi alla saggistica, Hugo si cimenta proprio in tutto, perfino nel disegno. La sua opera avrebbe dovuto sintetizzare un secolo intero, come disse egli stesso: “L’insieme della mia opera un giorno sarà come un tutto indivisibile. […] Un libro molteplice che sintetizzi un secolo.”
Hugo scrive L’ultimo giorno di un condannato a morte nel 1829, a ventisette anni, in un periodo particolare della Francia, in cui il problema della pena capitale stava divenendo il punto di partenza di una dottrina morale e che era al centro del dibattito pubblico, che interessava moltissimo lo scrittore.
Che cosa?
Il condannato a morte in questione non ha un nome, un volto, un’identità, quasi a ricordarci come il diritto alla vita sia un diritto indispensabile e indipendente dall’identità di una persona, intrinseco alla definizione stessa di essere umano. Ma Hugo ne L’ultimo giorno di un condannato a morte evidenzia non solo questo aspetto, ma anche il tetro fenomeno di spettacolarizzazione della morte. Una folla che sbraita, urla ed esulta dinnanzi alla perdita della vita di un proprio simile è, nell’ottica dell’autore, quanto di più ignobile e immorale ci possa essere.
Come?
La narrazione parte dal momento della condanna. Non sapendo quasi nulla sul condannato, lo conosciamo già nel momento della sua crisi che Hugo studia attentamente con l’occhio critico che lo contraddistingue. Con il passare del tempo il condannato prende consapevolezza della sua condizione e del fatto che di lì a poco verrà ucciso. Descrive gli ultimi terribili giorni di prigionia, dispiegando tutti i pensieri che vagano nella sua mente: dal che cosa lascia al che cosa perde; perché questa condanna? C’è un modo per evitarla? Per lui c’è ancora speranza?
Leggere la realtà della cella buia, sporca, fredda e piccola di Bicêtre attraverso gli occhi del condannato è straziante. A scandire il tempo solo l’attesa di un momento, inevitabile a quanto sembra, fissata su carta dallo stesso protagonista. Con un’inquietante precisione ci viene proposta una descrizione minuziosa di tutte le sensazioni e i pensieri del condannato: il senso di colpa, la nostalgia, il pentimento, la paura, l’ansia, la sofferenza, l’angoscia, l’impotenza, la rassegnazione e, anche, l’incomprensione di un momento che l’animo umano non può realmente pensare di comprendere, la morte. Hugo non dirà mai per cosa fu condannato il nostro protagonista, perché nel libro lui altro non è che un essere umano: non rileva il motivo della condanna, quali atrocità abbia commesso, ma soltanto la natura umana del condannato e la natura fortemente disumana della pena di morte.
Perché?
Nello scrivere questo manifesto sotto forma di commovente diario personale Hugo non si risparmia e, nemmeno, risparmia la Francia ottocentesca. Coraggioso senz’altro il suo onorevole tentativo di condanna di una pratica brutale che ha coinvolto nei secoli il mondo intero. Molto interessante è il modo in cui si esplica il suo intento, non difendendo un caso specifico, ma innalzando il diritto alla vita come diritto inviolabile e superiore a qualsiasi altra cosa. Non è necessario sapere chi ci sia dietro quelle sbarre perché potrebbe esserci ciascuno di noi. Hugo si limita a non negare il crimine del condannato, ammettendone anzi la colpevolezza, ma non spiegando di quale colpa si tratti, semplicemente perché non è rilevante: in ogni caso il crimine non giustificherebbe il provvedimento preso per punire il criminale.
La pena di morte oggi
Ad oggi, nonostante la pandemia da Covid-19, la vittoria contro la pena di morte è ancora lontana. A testimoniarlo è il rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel 2020. Sebbene si dimostri una tendenza generale verso la diminuzione dell’uso della pena di morte, si evidenzia al contempo come alcuni stati abbiano eguagliato se non addirittura aumentato il numero delle esecuzioni. Negli USA, l’amministrazione Trump ha ripristinato le esecuzioni federali dopo 17 anni, mettendo a morte 10 condannati in meno di sei mesi. La pandemia non ha fatto altro che peggiorare una situazione già di per sé insoddisfacente sul piano dei diritti umani. Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, dice a riguardo:
La pena di morte è una punizione abominevole e portare a termine esecuzioni nel mezzo di una pandemia ne ha ulteriormente evidenziato la crudeltà. […] La pandemia ha fatto sì che molti prigionieri nei bracci della morte non abbiano potuto incontrare di persona i loro legali. […] L’uso della pena di morte in circostanze del genere è un attacco particolarmente grave ai diritti umani.
FONTI
Victor Hugo, L’ultimo giorno di un condannato a morte, Feltrinelli, 2016
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