Se mai si dovesse lasciare al futuro una capsula di questo tempo, The Chair avrebbe ottime probabilità di finirci dentro. La sua è una miniatura perfetta di quest’epoca suscettibile e arrabbiata, e delle sue molteplici contraddizioni.
The Chair, per riavvolgere un attimo il nastro, è un coacervo di prime volte. È la prima serie tv creata e scritta da Amanda Peet, attrice di longeva carriera e mediocre successo; ed è anche la prima esperienza da sceneggiatrice per Annie Julia Wyman, che dopo un dottorato in letteratura a Harvard ha recentemente abbandonato il percorso accademico per dedicarsi a tempo pieno a film e serie tv. È più probabile, però, che di The Chair abbiate sentito parlare per via dei suoi due produttori, David Benioff e D.B. Weiss. Cioè coloro che hanno creato Il Trono di Spade e poi ne hanno gestito le stagioni con una cura direttamente proporzionale alla loro repulsione nel continuare a scriverla.
Per Benioff (peraltro marito di Peet) e Weiss, The Chair non è solo la prima opera nata da un accordo di collaborazione con Netflix da circa 200 milioni di dollari. Si tratta anche della primissima serie tv prodotta dopo la fine del Trono di Spade e dopo due anni di costante rivalutazione del loro lavoro. Perciò, se sei uno sceneggiatore accusato di aver guastato una serie epica con un finale inappagante e dosi gratuite di violenza (non importa che lo stupro sia davvero un’arma che accomuna secoli di guerre), è piuttosto comprensibile che tu scelga di ripartire da qualcosa di retto e rassicurante. Tradotto nel linguaggio di quest’epoca: qualcosa che non faccia arrabbiare gli integralisti dell’inclusività e del #MeToo.
Ecco delinearsi quindi la storia di Li-Ion Kim (Sandra Oh), appena diventata la prima donna, nonché la prima persona di origine asiatica (lo avevamo detto, che questa serie è un coacervo di prime volte), a dirigere il dipartimento di lettere di un’università fittizia in fase di travagliato rinnovamento. La Pembroke University, infatti, non sa come pensionare i suoi professori preistorici (e rigorosamente bianchi) e i loro metodi stantii poco digeribili ai nuovi studenti. Tuttavia, non sa nemmeno come dire a una delle sue professoresse più giovani e brillanti (e non casualmente nera) che la sua cattedra sarà affidata a David Duchovny per rendere più pop l’immagine dell’ateneo.
Questa matassa di conflitti viene smollata nelle mani di Ji-Yoon (“Perché sono donna?”, “Perché sono asiatica?” si chiede lei a un certo punto della serie). Sbrogliarla però è difficile, e diventa pressoché impossibile quando il professore Bill Dobson (Jay Duplass) ha la smagliante idea di accompagnare una delle sue lezioni con un saluto nazista. Levarsi di smartphone, video virale, sconcerto nazionale.
A nessuno importa del contesto culturale in cui quel gesto è inserito. Come a nessuno importa che la lucidità di Bill, uno dei letterati più apprezzati della nuova generazione, sia momentaneamente alterata da profonde sofferenze personali. Prima viene la smania di guardare, condividere, commentare, manifestare, chiedere la testa dell’eretico di turno, sulla base di un frammento di realtà privo di spiegazione.
In sei mezzore tragicomiche, The Chair prova a rendere l’idea di quanto soffocante questo tempo sappia essere. Ji-Yoon annaspa nello stesso clima di forzata giustizia sociale di cui lei stessa si era fatta promotrice, senza trovare soluzioni. Qualsiasi parola pronunci e in qualsiasi direzione si muova, c’è sempre qualcuno pronto a sentirsene parte lesa e a pretendere le sue scuse.
Ogni pedina del cast è eccellente nel marcare lo spaesamento generale. C’è Sandra Oh che s’affanna – bravissima, ma lo sapevamo già da prima di Killing Eve – a mettere pezze un po’ dappertutto: alle polemiche, al rapporto con i colleghi diventati sottoposti, alla relazione platonica con Bill e a quella movimentata con la figlia adottiva. C’è Jay Duplass che anestetizza la solitudine e il fallimento professionale reinventandosi bambinaio di quest’ultima. Poi c’è David Duchovny (sì, c’è davvero) che un po’ stropicciato sciorina titoli universitari passati inosservati ai più. Infine ci sono Holland Taylor e Bob Balaban che riescono quasi a intenerire la figura – assai reale – dei vecchi accademici ostruzionisti.
The Chair, fa insomma quello che in questi tempi s’è smesso di fare: osservare quel che traspare dalla pelle sottile delle persone per contestualizzarne parole, azioni e fatti. Così non ci sono antagonisti, solo storie da conoscere e comprendere. Peccato lo faccia in maniera soltanto accennata e mai davvero tagliente. Non è chiaro se per la brevità della formula o per la paura di dover chiedere scusa a qualcuno.