Le leggi in Italia: quando il troppo stroppia

“Corruptissima re publica plurimae leges” diceva Tacito nei suoi Annales, sostenendo che nel momento in cui lo Stato è corrotto sono moltissime le leggi imposte e introdotte, perché oltre alle leggi che servono all’amministrazione e al bene della comunità, sorgono sempre più delle leggi ad hoc o ad personam che non fanno altro che favorire qualcuno o qualche categoria sociale.

Potremmo però pensare anche al contrario, almeno cercando di attualizzare l’affermazione di Tacito a quella che è la nostra esperienza della quotidianità. Potremmo infatti dire che la sovrabbondanza di leggi crea una maggiore corruzione nello Stato. Per quanto le leggi poi ci paiano inermi, poco attive nella vita di tutti giorni, esse sono comunque in grado di far spendere quasi cento miliardi di euro all’anno alle nostre imprese.

La troppa ricchezza normativa italiana

Usare il termine ricchezza forse non rende bene l’idea, perché ci viene facile pensare che maggiore sia la ricchezza e migliore sia la condizione di chi la possiede. Forse è allora più utile utilizzare una metafora gastronomica nel parlare della situazione italiana. I principali esperti e studiosi in materia di Legge sostengono che un buono Stato, che sia efficiente ma anche efficace nel suo agire, debba avere una quantità di circa 10.000 leggi attive. L’Italia al momento ne ha circa 110.000.

Mangiare è necessario al nostro sostentamento, ancor di più lo è mangiare equilibrato, ma il nostro corpo inizia a rifiutarsi nel momento in cui mangiamo esageratamente: potremmo incorrere in un’indigestione. L’Italia vive da anni (se non da decenni) in uno stato di perenne indigestione.

Una sovrabbondanza che viene da lontano

Quella delle leggi è poi una sovrabbondanza che proviene dal passato, basti pensare che nel corpus, oltre ai circa 46.000 decreti del Presidente della Repubblica, troviamo anche più di 33.000 regi decreti, più di 7.000 decreti luogotenenziali e anche 21 decreti del “duce del fascismo”. Questi decreti e queste leggi si affiancano e talvolta si sovrappongono: il problema non è quindi solo di sovrabbondanza ma anche di disorganizzazione.

È quasi impossibile pensare che tutti e 33.000 i regi decreti debbano necessariamente essere mantenuti in vigore. Molti di essi sono stati affiancati ormai da norme che trattano gli stessi temi e alcuni avrebbero necessariamente bisogno di essere rivisti e aggiornati, ma non c’è la necessaria consapevolezza che riesca a mettere a fuoco la questione e a chiarirla agli occhi di chi ne ha la responsabilità.

Tra i decreti del “duce del fascismo” poi, vorrei sottolinearne alcuni, come per esempio uno che disciplina la produzione dei rigenerati del cuoio (1943), oppure l’accordo economico per la coltivazione e compravendita del pomodoro (1940), o ancora l’accordo economico per la produzione, il collocamento e la vendita del baco da seta (1943). Sono norme sorpassate chiaramente, ma essenzialmente mai cancellate. Tra i decreti regi ve ne sono forse alcuni ancora più vicini alla nostra esperienza: il regio decreto n. 653/1925 ed il regio decreto n. 2049/1929 in tema di valutazione degli alunni, ovvero quelli che stabiliscono come discutere i voti scolastici agli scrutini.

La soluzione? Tagliare! Ma nessuno lo fa

In realtà qualcuno ci provò: il professor Alfonso Celotto, famoso costituzionalista italiano, lavorò come capo-gabinetto di Roberto Calderoli nell’epoca in cui quest’ultimo fu ministro per la semplificazione normativa (Governo Berlusconi IV). Il tentativo più che di ordine politico fu di ordine tecnico, furono infatti molti i costituzionalisti e i giuristi che si auguravano un vero e proprio taglio delle leggi.

Il provvedimento cosiddetto “taglia-leggi” agì però poco e la sua applicazione fu per un periodo abbastanza ristretto. Il vero problema – dice proprio Celotto – è che si continua a fare uso dei cosiddetti provvedimenti omnibus, dove oltre alle vere e proprie norme si inseriscono normative sempre più minute e aggiustamenti minimi di altre leggi o decreti.

Durante il passaggio parlamentare anche l’osservatorio della Camera ha notato come le leggi tendano a gonfiarsi di commi e questo da un lato certo dà lavoro alle camere, ma contribuisce in ampia maniera alla frammentazione del corpus legislativo e a una sempre più grande disorganizzazione dello stesso.

Non siamo gli unici, eppure…

Già, bisogna essere sinceri: anche la Germania si è data da fare, eppure non ha i nostri stessi problemi. Soprattutto negli ultimi vent’anni la Repubblica Federale ha prodotto 2.650 leggi, circa 500 in più rispetto a noi, ma ha un vantaggio: il far ricorso ai codici. I codici permettono di classificare determinate normative e leggi intorno a uno specifico ambito, perciò quando una nuova norma viene approvata, ecco che viene inserita nello specifico codice.

In Italia invece le norme tendono più a vivere “di vita propria”, con una certa autonomia, il che rende ovviamente meno facile la loro consultazione. Un lavoro di riorganizzazione delle nostre leggi in codici avrebbe dovuto essere avviato in corrispondenza del progetto detto “taglia-leggi”, ma all’arenarsi di questo anche il lavoro di codificazione giuridica è stato messo da parte. Il costituzionalista Celotto sostiene che questo lavoro impiegherebbe una commissione specifica per circa 4 o 5 anni, ma ridurrebbe di molto la complessità dell’attuale sistema (soprattutto nella consultazione).

Semplificare il sistema: informatica, ma non solo

Proprio questo lavoro di codificazione e il successivo inserimento nei codici delle nuove norme avverrebbe con più facilità in un contesto informatico. La transizione digitale, alla quale è preposto un dipartimento dell’attuale Governo, non ha però ancora raggiunto un livello adeguato da garantire al sistema autonomia informatica.

Certo, oltre a questa necessità più pratica, anche un corretto uso e una corretta applicazione delle norme e dei procedimenti amministrativi permetterebbe un funzionamento snello e più chiaro del grande sistema della burocrazia. Alcuni sostengono addirittura che per una migliore organizzazione o per una semplificazione servano nuove leggi, mentre forse è tutto il contrario.

L’iter di approvazione di nuove leggi è lungo e spesso complicato, inoltre l’entrata in vigore di una nuova legge porta con sé delle grandi questioni da non sottovalutare, una su tutte la possibilità che la norma sia applicata in maniera errata e che si entri in un contenzioso con l’Amministrazione Pubblica. Più spesso però la norma non viene applicata e questo avviene perché nessuno sa esattamente di chi sia la competenza (o forse preferisce non saperlo).

Secondo alcune stime se le regole e le norme già esistenti fossero applicate in maniera corretta i processi amministrativi si concluderebbero entro 30 giorni (tranne i più complessi, entro 180 giorni comunque), non verrebbero chiesti pareri inutili o documenti che dovrebbero essere in possesso delle amministrazioni pubbliche, i provvedimenti illegittimi sarebbero automaticamente annullati, procedure lunghe e complesse sarebbero risolte da accordi privati o tra amministrazioni, diversi adempimenti sarebbero sostituiti da autocertificazioni.

Se ognuno facesse il suo…

Tutto questo (e molto di più) è previsto dalle leggi attualmente in vigore, ma il troppo nasconde e così anche le leggi più utili (o quelle più scomode a qualcuno) rimangono sommerse da quelle inutili o abusate e noi siamo costretti a rivolgerci a chi ne capisce qualcosa in più per consulenza e assistenza tecnica amministrativa, legale e finanziaria.

Se ogni ente facesse il suo e se effettivamente venissero eliminate quelle competenze “doppie” su determinati temi, ecco che qualcosa potrebbe cambiare, anzi cambierebbe sicuramente. E allora, se lo sappiamo: perché nulla cambia?

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