Difficile spiegare perché l’uomo si spinga a tanto. Quale sarebbe il motivo che ci spinge in maniera istintiva all’esplorazione? Probabilmente non esiste una risposta definitiva a questa domanda. Quando venne chiesto a George Mallory, grande alpinista britannico, perché si fosse cimentato più volte nell’impresa di scalare l’Everest, lui rispose:
Perche è lì.
Il Monte Everest
I primi tentativi di raggiungere la vetta della montagna risalgono all’inizio del secolo scorso. Nel 1921 furono organizzate diverse spedizioni britanniche alle quali prese parte anche G. Mallory. Proprio nel corso di una queste spedizioni Mallory e il suo compagno di cordata Irvine persero la vita in circostanze ancora oggi poco chiare. Il suo corpo è stato ritrovato ben 75 anni dopo mentre quello di Irvine è ancora disperso. Non è stato possibile determinare se i due alpinisti abbiano raggiunto la vetta. Gli studiosi credono che i due siano morti durante la discesa dopo aver abbandonato l’idea di raggiungere la vetta a causa di condizioni sfavorevoli, mentre altri credono che l’obiettivo fosse stato raggiunto in quanto Mallory affermò che se avesse raggiunto la vetta, avrebbe lasciato lì una foto della moglie. Foto che non è stata rinvenuta sul cadavere.
Dopo così tanto tempo molti indizi sono andati persi. L’unica possibilità di fare chiarezza sui fatti risiede nella macchina fotografica che aveva con sé Irvine, il cui corpo, però, non è ancora stato rinvenuto.
La prima ascensione
Per gli scalatori di tutto il mondo, il Monte Everest rappresenta la meta finale, l’obiettivo principe da raggiungere. Prima che Edmund Hillary ne conquistasse la vetta nella primavera del 1953, l’Everest aveva avuto la meglio su sette grandi spedizioni.
La spedizione era composta da 15 alpinisti, capitanati dal britannico John Hunt, 450 portatori e 34 guide sherpa. Il 29 maggio Hillary e la sua guida sherpa Tenzing, entrambi con una bombola di ossigeno pesante più di 13 kg, si incamminarono dal campo IX per intraprendere l’ultimo tratto di scalata che li separava dalla cima della montagna. Hillary racconta come al pari della neve, dei dirupi e del vento, anche l’aria estremamente rarefatta rappresenti un grave rischio. Quando si superano gli 8.500 metri di altitudine nell’aria è presente solo un terzo dell’ossigeno che troviamo a livello del mare.
I due, tuttavia, continuarono a salire circondati dal silenzio, interrotto solamente dal rumore del ghiaccio che si sgretolava sotto i colpi degli scarponi e delle piccozze. Alla fine, dopo una scalata estenuante durata circa cinque ore, la cresta che si trovava davanti a loro scomparve e divenne parte del panorama: nulla si trovava più sopra di loro, niente sull’intero pianeta. Hillary racconta che la prima sensazione che provò, appena si rese conto di essere sulla cima del mondo, fu di sollievo misto a meraviglia e stupore. Lui e il suo compagno sherpa Tenzing furono i primi a raggiungere la cima più ambita da tutti gli scalatori del mondo. Erano arrivati dove in molti prima di loro non erano riusciti.
La prima spedizione americana
Dieci anni dopo l’impresa di Hillary, nel maggio del 1963 si concluse con successo la prima spedizione americana con l’obiettivo di conquistare la vetta più alta del mondo. Due componenti della spedizione, Thomas Hornbein e Willi Unsoeld, sono passati alla storia per aver compiuto la prima ascensione della Cresta Ovest del Monte. Una volta raggiunta la cima i due poterono riposare per soli quindici minuti in quanto il sole era già basso. Durante la discesa in piena notte e muniti solamente di una torcia per fargli luce, riuscirono a ricongiungersi con due dei loro compagni, tra cui Barry Bishop. I quattro passarono la notte all’aperto, senza nessun riparo, cercando di stare il più vicini possibile per evitare la dispersione di calore.
Il giorno seguente riuscirono a raggiungere uno dei campi base. La discesa venne resa sempre più difficile e faticosa dai piedi congelati che a stento permettevano ai quattro scalatori di muoversi. Per loro fortuna intervenne una squadra di soccorso e un elicottero che li portò all’ospedale più vicino. Per Bishop e Unsoeld il prezzo da pagare fu alto: gli vennero amputate tutte le dita dei piedi e le falangi dei mignoli delle mani. Bishop racconta di aver riflettuto molto su quell’esperienza, concludendo che:
Non ci sono veri vincitori, solo sopravvissuti.
La storica solitaria di un italiano
Da quel giorno molti alpinisti di diverse nazionalità si sono cimentati nell’impresa con nuovi equipaggiamenti e nuove tecniche, riuscendo anche ad aprire nuove vie per la conquista del tetto del mondo.
Un capitolo strepitoso della storia dell’Everest è stato sicuramente scritto dall’alpinista italiano Reinhold Messner nel 1980. L’alpinista altoatesino aveva già scalato l’Everest nel 1978, con Peter Habler, senza l’utilizzo di bombole di ossigeno. Nel 1980 decise di compiere una nuova ascensione completamente in solitaria, senza l’utilizzo di scorte di ossigeno né squadre di soccorso.
Già durante il secondo giorno di scalata, l’alpinista si trovò costretto a cambiare percorso date alcune difficoltà causate, in particolare, dalla grande presenza di neve lungo la strada. Decise di intraprendere una via più veloce resa libera da una recente valanga ma, dopo un’altra notte passata a bivaccare su un tratto innevato, iniziarono i primi problemi respiratori. La difficoltà a respirare in maniera adeguata lo costrinse a fare pause sempre più lunghe e frequenti, rallentando la salita.
Salivo istintivamente, non coscientemente… Ancora non so come ho fatto a raggiungere la cima. So soltanto che non avrei resistito oltre… ero proprio al limite.
Quando raggiunse la vetta rimase solo il tempo necessario a documentare fotograficamente la sua impresa e decise di intraprendere subito la discesa. Messner ha spesso messo in discussione la validità dell’utilizzo di bombole di ossigeno supplementare. Lui è parte di una generazione di alpinisti che crede fermamente che le salite senza alcun supporto siano un test più valido della forza, della resistenza e delle capacità di uno scalatore.
Secondo lo scalatore italiano, passato alla storia per aver conquistato tutti i 14 Ottomila del mondo senza l’impiego di ossigeno supplementare, il ricorso alle bombole ossigeno significa che non è più lo scalatore a salire verso la vetta ma è quest’ultima a scendere al suo livello.
FONTI
Le grandi spedizioni di National Geographic, prima edizione italiana 2001, White Star S.r.l.