Per chi ama Wes Anderson Grand Budapest Hotel resta un capolavoro indiscusso. Ma anche per i meno avvezzi al regista, la pellicola impressiona per la sua meticolosa precisione, accanto all’estrema capacità di attrazione. Lo spettatore si sente immediatamente trascinato, addirittura risucchiato nel vortice di colori e nell’incastro di trama progettato da Wes Anderson. Così si ritrova in un tempo senza tempo, in uno spazio tridimensionale e labirintico in cui non è difficile perdersi.
Vincitore di quattro statuette agli Oscar, il film fu distribuito nel 2014 a seguito di un lungo processo creativo. Con il sodalizio di Hugo Guinnes l’opera prese ispirazione dal mondo narrativo di Stefan Zweig, uno scrittore austriaco. Fu proprio questo infatti a innescare il processo dei due artisti i quali, in pochi mesi, completarono la stesura della sceneggiatura.
L’estrema bravura di Wes Anderson rende Grand Budapest Hotel non riconducibile ad alcun genere cinematografico. Al contrario, il film ne costituisce una perfetta sintesi: un commedia spinta, meticolosamente organizzata, con una punta di thriller e di mistero. Insomma, un film impacchettato coi fiocchi dal grande regista, un vero capolavoro di stile. Dai primi frame è facile infatti cogliere la vena umoristica del regista, quello sguardo obliquo che innesca prospettive inedite e inaspettate sul mondo.
Se da una parte risulta rilevante l’intarsio stilistico scelto da Wes Anderson, articolato su tre differenti livelli analitici, non può che destare meraviglia la scelta cromatica. La palette presenta infatti preponderanza di colori pastello, a partire dallo stesso hotel, divenuto simbolo e immagine da copertina. La tintura cromatica scelta rappresenta d’altronde una marca stilistica dello stesso autore, poiché individuabile nella maggior parte dei suoi film.
La struttura a scatole cinesi e la pastiche di generi
Il film sfrutta un espediente narrativo particolare: la rievocazione. Il racconto a ritroso è infatti innescato da uno dei due protagonisti della storia: Zero Moustafa, il concerge e ormai proprietario di un albergo abbandonato, il Grand Budapest appunto. Egli racconta a uno scrittore il passato splendente dell’hotel e le sue avventure come fattorino in compagnia del co-protagonista Monsieur Gustave H., ai tempi ricco proprietario dell’albergo. Da qui si dipartono una serie di avventure che pongono al centro i personaggi, presentati come pedine mosse da un soggetto che coordina gli eventi nell’inesorabile scorrere degli tempo. Il racconto si concentra successivamente su una vicenda assimilabile a un giallo. Gustave H. viene infatti accusato dell’omicidio di una ricca nobildonna e l’intera storia presenta l’obiettivo di scagionare la sua colpevolezza.
Come accennato precedentemente, Grand Budapest Hotel si articola in tre linee temporali: 1935, 1968 e 1985. I salti temporali tra le epoche storiche sono continui e segnalati da una variazione del filtro della pellicola. La storia viene padroneggiata di volta in volta da diversi narratori. Se a una prima impressione potrebbe dunque sembrare tecnicamente complessa, lo spettatore si può lasciare travolgere dal concitato scorrere degli eventi. Il ritmo appare talvolta febbrile ed estremamente variabile. Grand Budapest Hotel è un vero e proprio capolavoro stilistico che consente a Wes Anderson di mettere in mostra le sue virtù di autore.
Le marche stilistiche di Wes Anderson
Wes Anderson risulta essere un co-protagonista dell’opera. Al pari dei grandi personaggi, la sua ombra incombe sovrana sulla pellicola. Ciò è visibile prima di tutto nei personaggi, piuttosto ambivalenti. Da una parte sono infatti caratteri fissi, quasi macchiettistici. Dall’altra però presentano una psicologia tratteggiata dall’autore in modo minuzioso. Ciò non è altro che una marca stilistica dello stesso autore: in effetti Anderson è solito costellare i suoi film di personaggi tragicomici e inverosimili, al limite con la parodia.
Altro tratto ricorrente individuabile in Grand Budapest Hotel risulta la presenza di inquadrature geometriche e fumettistiche. Non a caso evidenti sono le ispirazioni al fumettista americano Chris Ware. I movimenti di macchina sono puliti e precisi ma non rigidi e rilevante è l’uso della steadycam.
Come accennato precedentemente, interessante è l’utilizzo di una palette di colori sfavillanti, accompagnati da colori pastello. Questi ricordano, da una parte, la grafica dei fumetti e, dall’altra, l’atmosfera favolistica e senza tempo delle favole.
Infine è interessante notare l’incombente presenza del clima ironico. Wes Anderson gioca infatti con i generi, abbassando il registro stilistico in scene che apparirebbero altrimenti tragiche (prima tra tutte la rocambolesca fuga dal carcere).
Grand Budapest Hotel resta senza dubbio il film targato Wes Anderson più interessante e ampiamente apprezzato, un vero gioiellino della storia cinematografica. Un gioiellino per gli amanti del genere, una scoperta per i meno avvezzi.
CREDITS