Le pagine che oggi state sfogliando sono il risultato di una storia molto lunga e di molte battaglie, da quelle sanguinose combattute sul fronte, a quelle culturali, meno drammatiche, ma solo in apparenza. Se la moda rispecchia il proprio tempo, lo stesso vale per i magazine che la raccontano. E se ancora oggi qualcuno storce il naso all’idea che l’attualità rientri tra gli interessi di un fashion magazine, forse vale la pena andare alle radici di questa storia, che sono lontane, e molto profonde.
Modest Fashion: una moda che cambia
La moda è sincera, complessa, apparentemente egoista, ma pronta ad accogliere – più di qualsiasi altro sistema – la diversità, l’estraneità, l’attimo. In un periodo storico in cui l’hijab sembra sotto il mirino accusatorio delle super potenze mondiali – in primis la Francia, con l’ultima legge che vieta il velo alle ragazze sotto i 18 anni – il mondo fashion sembra in armonia con questo simbolo ricco di significati. L’hijab dall’11 settembre 2001 è stato infatti strumentalizzato e utilizzato come capro espiatorio con lo scopo attuale di vietare “qualsiasi abbigliamento o vestiario che indicherebbe una presunta inferiorità dell’uomo rispetto alla donna“. Inutile precisare che le motivazioni sono anche altre: “prima gli interessi, la politica e poi il resto”.
Il Modest Fashion negli ultimi anni ha guadagnato il posto sul podio delle sfilate: parliamo di un sistema concreto e altamente produttivo, un giro d’affari enorme, con tantissime opportunità di profitto e crescita. Molti brand occidentali hanno lanciato delle capsule collection realizzate specificatamente per le consumatrici musulmane, concentrando l’attenzione soprattutto sulle Muslim Millenials – età media di 30 anni – interessate al mondo della moda, informate e costantemente connesse.
Ho scelto di indossare l’hijab. No, non mi opprime ma mi libera dalla società e dalle sue aspettative su come dovrebbe apparire una donna.
Sport e trasformazioni
Il 2016 ha rappresentato l’inizio di una nuova stagione. Durante le Olimpiadi di Rio de Janeiro si parla, per la prima volta, di Hijab Muslim American: conseguenza dovuta alla vincita della medaglia di bronzo nella scherma da parte di Ibtuhaj Muhammad, nata nel New Jersey. La campionessa ha il capo velato, come nota Shelina Janmohamed, scrittrice musulmana e britannica che ha scritto un saggio dal titolo Musilm Sportswear, uno dei più straordinari del catalogo presentato alla mostra Contemporary Muslim Fashion, organizzata dal Fine Arts Museum of San Fransisco.
È il primo evento che accoglie arte e hijab sportivo, con fotografie odierne e dell’epoca. Elucubrazioni di professioniste, studiose e giornaliste, portano all’attenzione fenomeni non facilmente comprensibili che facilitano la creatività estesa a livello mondiale. La moda islamica è una realtà complessa dal punto di vista del pensiero, morale, etico e religioso. Questa consapevolezza non dovrebbe stupire, se pensiamo al mercato che vi si muove dietro, che coinvolge un miliardo e 800 milioni di persone in tutto il mondo e che in soli tre anni ha speso una cifra stimata attorno ai 480 miliardi di dollari.
Nonostante ciò, rimane una dimensione che non viene completamente colta, sfugge e viene spesso riconosciuta con l’Islamic dress caratteristico della Penisola Araba: un abito nero che copre tutto e nasconde il corpo.
Principessa Deena
Nel 2016, qualcosa cambia nuovamente, l’editore Condé Nast – dopo anni di rumor – ha annunciato il lancio di «Vogue Arabia». La prima edizione della testata online ha fatto il suo roseo ingresso nella moda a settembre dello stesso anno sotto la direzione di Deena Aljugani Abdulaziz, conosciuta anche come Principessa Deena.
È interessante osservare come lo stile che scegliamo possa variare esattamente come forma libera di discorso e diventare lo strumento attraverso il quale evocare idee anche contradditorie di moralità, etica ed estetica. Perché il dibattito ruota intorno al concetto di come la moda possa contemporaneamente essere in atto di modestia o immodestia secondo il desiderio di chi l’ascolta.
La Principessa Deena è un’editrice e una donna d’affari, fa parte della famiglia reale Saudita e nel 2017 è entrata nell’etereo mondo di «Vogue». La sua permanenza all’interno del giornale è stata molto breve: dopo solo due numeri ha lasciato il suo posto nel direttivo per cederlo a Manuel Arnaut. In realtà, lei stessa ha affermato che il vero motivo non è sorto da una sua decisione: “Non ho lasciato, sono stata licenziata”.
Lo stile e il look di Deena si ispirano alla cronaca mondana, alle riviste pettinate e al mondo del cinema. Per il lancio della copertina di «Vogue Arabia» ha scelto la top model Gigi Hadid – californiana di origini palestinesi – che ha indossato un pregiato velo ricamato. Nella copertina la modella aveva uno sguardo seducente e affascinate fisso sull’obiettivo e bracciali firmati Cartier al polso.
Una cover che ha suscitato diverse polemiche, che vedono come oggetto di discussione la competenza della Principessa di gestire una rivista di moda in un paese con valori etici e morali conservatori e tradizionali. In molti l’hanno accusata di appropriazione illecita culturale dell’hijab. Secondo questo filone di pensiero, il velo – simbolo per eccellenza della religione e della cultura islamica – è stato utilizzato meramente come oggetto e accessorio di moda, spogliandolo così del suo valore sacro. In aggiunta a ciò, ricordiamo che Gigi Hadid non è musulmana: questo peggiora la situazione. Si è scatenato un grande dibattito e la carriera della principessa Deena come direttrice di «Vogue Arabia» è terminata malamente.
Può la moda convivere con la religione? La questione è molto complessa. La cosa migliore sarebbe quella di trovare un equilibrio tra le due dimensioni, che possono coesistere mantenendo e rispettando i valori reciproci e creando un contesto armonioso, in cui ognuno può esplicitare le proprie caratteristiche e credenze in maniera personale e senza costrizioni. Certo, la situazione politica e l’islamofobia che in molti, troppi, stanno cercando di diffondere non aiuta. Sta alle coscienze e alle capacità di ognuno di noi discerne il bene dal male.
Dal punto di vista mediatico potremmo sicuramente fare riferimento al secolarismo Francese che, alimentato dalla paura dell’invasione, ha contribuito all’idea, nell’immaginario collettivo, dell’hijab come slogan religioso in grado di minacciare l’esistenza e la laicità dello Stato. Dal mio punto di vista la donna è libera di indossare qualsiasi tipo di velo.
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