L’impresa singolare di Pasolini
Sulla Divina Commedia si è scritto tantissimo. Numerosi sono i critici che nel corso dei secoli hanno parlato dell’impresa letteraria per eccellenza. Ma nessuno ha osato mai tentare di riscriverla, eccetto uno dei più controversi autori della nostra letteratura, Pier Paolo Pasolini. Così, proprio nell’anno in cui si celebra il settecentesimo anniversario della morte di Dante, diamo voce alla Divina Mimesis, un’interessante riscrittura contemporanea e frammentaria della Commedia.
Naturalmente sarebbe impensabile offrire in poche righe la spiegazione completa ed esaustiva di un testo che, nonostante sia breve per via della sua incompiutezza, risulta comunque ostico da indagare. Tuttavia, ciò che conta è dare un’immagine generale e appassionante di uno scritto che rappresenta un ponte tra un passato lontano e una modernità storicamente più vicina a tutti noi. E allo stesso tempo simboleggia un punto cruciale di cambiamento ideologico e letterario nell’universo lavico di Pasolini.
Quando nasce in Pasolini l’idea di scrivere la Divina Mimesis?
Nei primissimi anni Sessanta, l’autore bolognese appare mosso da una dichiarata volontà di produrre una sua versione del capolavoro dantesco. Già alcuni saggi nati in questo stesso periodo dimostrano l’intenzione di Pasolini di approfondire, attraverso lo studio di Dante, alcuni aspetti della sua condizione di intellettuale. “La volontà di Dante a essere poeta”, pubblicato nel 1965, è soltanto l’inizio di alcune particolari considerazioni pasoliniane in merito a questo argomento.
In realtà, la sua attenzione verso il poeta fiorentino è presente sin dall’inizio degli anni Cinquanta, per questioni di sperimentalismo linguistico e stilistico. Ma con il passare del tempo e a causa di alcuni sostanziali cambiamenti nel mondo letterario – come la nascita della Neoavanguardia – la riflessione pasoliniana su Dante muta i suoi intenti originari. Essa infatti passa ad essere riattualizzata anche da un punto di vista politico e sociale, oltre che culturale, nella rappresentazione della realtà – mimesis appunto – sempre più complessa e caotica.
La genesi frammentaria e le attività collaterali di Pasolini
Bisogna ricordare che già nel 1958 Pasolini aveva tentato una sorta di avvicinamento alla Commedia dantesca attraverso uno scritto intitolato La Mortaccia, in cui la protagonista è una prostituta guidata dallo stesso Dante lungo il suo viaggio negli Inferi.
Successivamente, lo scrittore passa alla stesura del materiale che costituirà il corpus della Divina Mimesis. Le note e i frammenti si dilatano nello spazio di alcuni anni: sappiamo che inizia precisamente nel 1963, e continua per tutto il 1966 e il 1967, riprendendo più volte il testo negli anni successivi. Così, la breve Prefazione è datata 1975, mentre l’Excerptum, a fine volume, riporta una nota di “Letteratura italiana. Otto-Novecento”, l’opera di Gianfranco Contini del 1974.
Sempre nel medesimo periodo, accanto alla letteratura, vedono la luce moltissimi film. Pasolini, infatti, si concentra in maniera decisiva sull’attività cinematografica come modo ulteriore per offrire una nuova prospettiva comunicativa. Il linguaggio del cinema riesce a leggere la realtà al pari di un’opera rivoluzionaria come la Divina Mimesis. Da Accattone a Mamma Roma, da La Ricotta a Il Vangelo secondo Matteo: sono tutti capolavori cinematografici dei primi anni Sessanta.
Struttura e forma
Sullo sfondo di queste numerose attività, Pasolini si dedica alla costruzione piuttosto disfunzionale della Divina Mimesis, pubblicata soltanto alcuni giorni dopo la morte dell’autore, avvenuta il 2 novembre 1975. Il testo, che presenta una forma non finita, si apre con due Canti – gli unici completi – scritti sulla base dei medesimi del girone infernale dantesco. Mentre gli altri tre Canti, rispettivamente il terzo, il quarto e il settimo, appaiono sotto la dicitura di “Appunti e frammenti”. Seguono poi due note a cui si aggiungono la “nota dell’editore” e altri tre appunti per il settimo Canto.
A conferire all’intera opera un carattere ulteriore di particolarità, interviene un vero e proprio album fotografico, che porta il nome di “Iconografia ingiallita”. Si tratta di venticinque immagini in bianco e nero scelte dallo stesso Pasolini, che intendono raccontare, tramite un metodo differente, una storia che sta al lettore ricostruire. L’intento dell’intero volume è comunque ben definito già nella “Prefazione”:
La Divina Mimesis: do alle stampe oggi queste pagine come un «documento», ma anche per fare dispetto ai miei «nemici»: infatti, offendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all’Inferno.
Iconografia ingiallita: queste pagine vogliono avere la logica, meglio che di una illustrazione, di una (peraltro assai leggibile) «poesia visiva».
Contenuti e significati
Così come il modello della Commedia, anche lo scrittore bolognese ci descrive un viaggio nelle profondità infernali del mondo a lui contemporaneo. Il protagonista, nonché alter ego di Dante, è il Pasolini dei primi anni Sessanta. La Selva è la realtà in cui lui vive, o meglio sopravvive. Sin dall’inizio del percorso, è attratto e condotto da un luce rossa, che diventa rappresentativa di un’epoca ormai lontana e soprattutto di un’ideologia politica che sta scomparendo.
Le coordinate cronologiche sono perennemente messe in discussione nella realtà immaginata nella Divina Mimesis. Il passato entra a far parte del presente, che a sua volta si lega inevitabilmente anche al futuro. L’incontro con le tre fiere, la Lonza, il Leone e la Lupa, non è altro che l’incontro con aspetti caratteriali e intimi di Pasolini. Anche la figura virgiliana che incrocia lungo il cammino è impersonata dall’autore così com’era un decennio prima. Lo sdoppiamento pasoliniano, in realtà, è una riflessione sui cambiamenti a cui l’autore stesso si andava sottoponendo in quegli anni.
Note finali e una morte che sembra preannunciata
A spezzare l’unitarietà del viaggio dantesco e contemporaneamente del suo racconto, subentrano le due note a fine testo. Nella prima, viene espressamente dichiarato l’intento principale dell’opera, che si presenta stratificata e complessa proprio come la realtà: non c’è una temporalità precisa e lo spazio è riconosciuto solo nel caos. Nella seconda, invece, viene precisata la volontà di scrivere un testo in una lingua non-nazionale, cioè ancora non contaminata dall’influenza neocapitalista e neoavanguardista.
Se queste note appaiono come dichiarazione di poetica, la terza e ultima assume, invece, tutt’altra prerogativa per l’ignaro lettore. In effetti, si tratta di un commento scritto dall’”editore” (ovviamente sempre Pasolini), in cui ci viene detto che l’autore è morto, “ucciso a colpi di bastone, a Palermo”. L’opera, dunque, non è altro che il risultato della pubblicazione di tutti i fogli lasciati dallo scrittore prima della sua terribile fine.
Dove finisce la finzione e comincia la realtà
Alla luce di ciò, può sembrare un incredibile scherzo del destino quanto immaginato da Pasolini. La morte violenta dell’autore è metaforicamente la morte di un tipo di letteratura ormai impossibile da realizzare, superata da un modello, quello neoavanguardistico, che acquisisce sempre più vigore.
Un finale simile, tuttavia, aspetterà davvero Pasolini, assassinato nella notte tra il primo e il due novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia. Pochi giorni prima, consegna al proprio editore la Divina Mimesis, volutamente incompiuta. La strategia narrativa, d’ispirazione dantesca nel suo essere un testo rivoluzionario, avvicina in ogni caso lo scritto ad un testamento. Le immagini dell’Iconografia ingiallita, aggiunte alla fine, non fanno altro che sottolineare tale aspetto. Probabilmente è per questo che l’intera opera acquisisce un valore ancora più particolare. Rivoluzionaria, lapidaria e testamentaria divina rappresentazione del mondo.
FONTI
Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis, Mondadori, Milano, 2014.