Eugenio Montale è tra gli scrittori italiani più conosciuti del Novecento, capace di incarnare in tutte le sue sfaccettature il dinamismo, il disagio esistenziale e i cambiamenti che caratterizzano il suo secolo. Il grande scrittore, nonché critico musicale e traduttore, vinse nel 1975 il premio Nobel e, in quell’occasione, pronunciò un discorso che traccia molto chiaramente la sua visione del mondo contemporaneo, del destino della letteratura e del ruolo dello scrittore.
Una veloce nota biografica
Eugenio Montale nacque a Genova nel 1896. La sua formazione fu molto eterogenea: diplomato in ragioneria si interessò fin dalla giovane età alla cultura contemporanea, soprattutto italiana e francese, e sotto la guida di alcuni insegnanti, si avvicinò alla filosofia di Bergson. Partecipò con il grado di sottotenente alla Prima guerra mondiale, si avvicinò all’ambiente intellettuale torinese e soprattutto all’antifascista Piero Gobetti. Firmerà, nel 1925, il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce ed esprimerà dunque il suo dissenso, sia civile che politico, nei confronti della dittatura.
Nel 1927 lo vedremo trasferirsi a Firenze e collaborare con importanti riviste culturali come «Solaria». Durante il secondo conflitto mondiale ospiterà Umberto Saba e Carlo Levi, perseguitati per motivi razziali e nel 1948 si trasferirà a Milano, iniziando la sua attività di redattore presso il «Corriere della Sera». Interessanti, in questo periodo, anche le interpretazioni e traduzioni di poeti inglesi moderni e antichi, tra cui Eliot. Nel 1967 venne nominato senatore a vita e nel 1975 venne insignito del premio Nobel. Morì a Milano nel 1981.
Prime opere
La prima raccolta di versi di Montale, Ossi di seppia, apparve nel 1925 presso le edizioni dell’amico Piero Gobetti. Il libro si presenta come molto particolare nel panorama coevo, in quanto antiavanguardista, ma allo stesso tempo non strettamente legato all’idea più tradizionalista di poesia. Nelle liriche sono sì riconoscibili elementi tradizionali, come i canonici versi endecasillabi, ma sottoposti a una sorta di corrosione. Per quanto riguarda l’aspetto tematico ci troviamo di fronte a un io poetico debole, in un certo senso inetto, che confronta la sua condizione con quella moderna dell’intero genere umano e denuncia il male di vivere. A questo moto interiore fa da sfondo il paesaggio ligure, tanto caro al poeta per tutta la sua vita.
Il “secondo” Montale
La seconda raccolta, Le Occasioni, datata 1927, rappresenta una svolta per la poetica montaliana: torna ad
Il “terzo” Montale
Nel 1956 uscirà La bufera e altro. In questa raccolta si accentuano i tratti manieristici e barocchi applicati a una realtà storica più riconoscibile che nelle altre opere, quella della guerra e del dopoguerra. Diventano più frequenti qui i testi interpretabili in senso allegorico e l’io lirico si avvicina a quello autobiografico.
L’ultimo Montale
Nel 1968 venne pubblicato Satura, una raccolta che ironizza apertamente, con linguaggio comico, sui temi trattati nelle opere precedenti e che accusa apertamente la moderna società di massa con le sue assurdità. Questi temi verranno riproposti anche nelle raccolte seguenti: Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (1980), poi riuniti nell’edizione critica a cura di Gianfranco Contini: L’opera in versi.
Il discorso alla consegna del premio Nobel
La letteratura è figlia dell’inutile
Nel discorso troviamo:
Nel mondo c’è un largo spazio per l’inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi.
Secondo lo scrittore si sta assistendo a un’irreversibile riempimento dell’inutile, a un suo spostamento semantico da momento fecondo per il dialogo con se stessi a mera perdita di tempo. Da qui l’ambiguità che ancora oggi riscontriamo nel termine otium latino, che assume spesso significati negativi. In realtà il momento in cui troviamo il tempo di dialogare con noi stessi è esattamente il momento più propizio per comporre poesia. Ma la società tende a riempire questo vuoto, soprattutto attraverso i nuovi mezzi di comunicazione. “Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione“, dice Montale nel suo intervento e prosegue: “La poesia così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione”.
Una poesia bifronte
La nuova ideologia, condivisa dalla nuova società, porta a una chiara bipartizione della poesia: da un lato quella vera e che, come abbiamo visto prima, è frutto del tempo che trascorriamo con noi stessi. Dall’altro quella commerciale, che risponde invece alla continua richiesta del pubblico e al suo gusto, tralasciando completamente i bisogni compositivi dell’autore. La letteratura diventa merce che deve essere venduta nel minor tempo possibile. Il poeta ligure dice:
Ma il fatto, se è vero, dimostra che ormai esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena è espressa, mentre l’altra può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo.
Viene messo l’accento sull’intramontabilità della buona poesia, che per la sua forza e la sua indagine interiore non declinerà mai, ma potrà sempre essere riscoperta, rivalorizzata e apprezzata.
La difficoltà di concepire un pubblico
Scrivendo poesie, frutto del proprio raccoglimento interiore, Montale si trova in difficoltà quando deve immaginare un pubblico per le sue liriche. Coloro che amano la nuova letteratura mercificata sono incapaci di apprezzare qualcosa che indaghi la solitudine, che rifuggono tanto ostinatamente. Allo stesso modo, pensare che la propria poesia sia diretta a pochi prescelti va contro l’idea di arte montaliana. Egli dice:
Non si creda però che io abbia un’idea solipsistica della poesia. L’idea di scrivere per i così detti happy few non è mai stata la mia. In realtà l’arte è sempre per tutti e per nessuno.
L’arte è per chi vuole apprezzarla e comprenderla, non può e non deve essere riservata a pochi, i già citati “happy few”.
Conclusioni
Alla fine del discorso il poeta tenta di trarre le conclusioni dalla sua riflessione, che sfiora a tratti la sociologia e la psicologia. La risposta alla domanda, purtroppo, in un contesto tanto sfaccettato come quello novecentesco, non può essere univoca. La poesia è infatti alla portata di tutti, per produrla bastano una matita e un foglio di carta. Tuttavia, già il fatto che venga prodotta, alla pari dei manufatti industriali, è fuorviante, poiché la poesia non è questo, ma ne è in un certo senso l’opposto. Ricadiamo nella bipartizione di cui abbiamo ora trattato. Ma forse è giusto così.
Non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun’altra creatura vivente può vantare.
La poesia è, in fondo, lo specchio della società e dell’interiorità di chi la produce: se la pensiamo in un secolo ricco di contrasti come il Novecento non potrà che rispecchiarne le interne contraddizioni.
Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. É come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione.
Le arti continueranno la loro strada, così come continuerà la nostra e, tanto quanto il nostro futuro, rimarranno qualcosa di oscuro nella loro evoluzione. La poesia continuerà però a essere un perno centrale per coloro che la concepiscono, scrivono e fruiscono, un porto sicuro per chi nella poesia trova un’amica fidata.
FONTI
Alberto Casadei, Il Novecento, Il Mulino, 2013
Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria,
I Classici Nostri Contemporanei, volume 3.2, Pearson, 2019
Un commento su “Montale: il mondo cambia e così la letteratura”