Al nostro insostituibile Nanni Moretti, diciamocelo, undici minuti di standig ovation non li avremmo mai rifiutati. Ma c’è una differenza decisiva tra applaudire l’autore e applaudire l’opera, e per valutare Tre Piani occorrerà farsi abbastanza onesti da accettare questa differenza.
Una sceneggiatura solida…
Il film si spalanca con fragore, il fragore di un evento improvviso che sconvolge la notte di un condominio romano. Tre delle famiglie residenti, da quel momento in avanti, si ritrovano a fare i conti ognuna con le proprie agitazioni interne: Lucio (Riccardo Scamarcio) e Sara (Elena Lietti) e gli irrisolvibili dubbi sull’incolumità della figlia di sette anni; le angosce di Monica (Alba Rohrwacher), sola alle cure di una neonata a causa della lontananza del marito Giorgio (Adriano Giannini); Dora (Margherita Buy) e Vittorio (Nanni Moretti) e l’inconciliabilità di temperamento in merito alle proprie responsabilità genitoriali.
Una narrazione complessa e accattivante, quella del romanzo di Eshkol Nevo, trasposta con capacità in una sceneggiatura più che valida (per opera di Nanni stesso, insieme a Federica Pontremoli e Valia Santella). La storia si sostiene in ogni sua parte e sa suscitare una gamma completa di emozioni, dalle grinze dell’inquietudine al fresco dell’affetto al logorio del rimorso.
Nondimeno, nella realizzazione effettiva della pellicola, nel passaggio dallo script alle riprese, è evidente che qualcosa va storto.
… per una regia dimenticabile.
Tre Piani è la prima volta di Nanni Moretti alla regia di un soggetto non suo. E seppur la trasposizione narrativa, come appena riconosciuto, non dia nessun tipo di problema, lo stesso non si può dire dell’espressione cinematografica vera e propria: tra lo spirito del romanzo e la visione del regista, purtroppo, le frizioni ci sono e si fanno sentire.
La forza della sceneggiatura si compromette nel suo mettersi in scena, o, per meglio dire, sono i mezzi espressivi morettiani a disorientarsi in un tipo di narrazione a loro estranea. D’altronde parliamo di un regista che ha passato tutta la sua carriera artistica a mettere in scena se stesso: le sue idee, le sue nevrosi, le sue passioni, rappresentate con una franchezza, una genuinità filmica che adesso, nel caso di Tre Piani, risulta fuori luogo.
Un montaggio molesto
In altri termini, Nanni riesce alla perfezione nel proposito di adattare il libro di Nevo, ma non si rivela in grado di adattarvisi lui. Lo schietto, personalissimo stile del cineasta romano, incastrato a forza in un contenitore preesistente, non trova la sua ragion d’essere e rischia di farsi fraintendere per la scolastica impersonalità di un dilettante.
Si guardi, per esempio, al malaccorto abuso della dissolvenza al nero: nel corso della visione accade fin troppo frequentemente che una scena, anziché chiudersi con un semplice stacco su quella successiva, vada a sfumare nel buio dello schermo vuoto, che poi a sua volta sfumerà sulla nuova scena. Un po’ come un sipario che si chiude brevemente per permettere di riassettare il palco. Ora, la storia di Tre Piani si svolge nell’arco di un decennio, e la tecnica della dissolvenza
Quando, verso la fine del primo terzo del film, il misfatto di uno dei protagonisti viene rivelato pubblicamente, segnando un punto di non ritorno nella sua vita, a noi spettatori non viene concesso di esperire fino in fondo questa svolta cruciale: la dissolvenza cala sull’immagine senza darci neanche il tempo di assistere alle reazioni dei presenti, senza darci il tempo di metabolizzarne l’impatto emozionale e di entrarci in sintonia. Certo, non sarà qualche dissolvenza di troppo a condannare un film al fallimento, però questo esempio dà un’idea della pigrizia creativa che più volte colpisce Tre Piani.
Ma sarebbe un gran sollievo, se a far storcere il naso fossero unicamente le moleste scelte di montaggio. I problemi non riguardano solo il modo in cui le scene sono montate, ma prima di tutto l’occhio da cui sono girate.
L’insipidità delle riprese
Non che si tratti di una regia scadente, sia chiaro. C’è però un certo scialbore, una anonima convenzionalità nelle scelte di inquadratura; è
Ora, ci mancherebbe che un regista non possa scegliere di rifarsi a una regia neutra, una regia poco invadente; una regia, per così dire, meno cinematografica e più teatrale, che lasci maggiore spazio d’azione al lavoro degli attori. Ma allora, ecco, parliamone: parliamo degli attori.
Il progressivo indebolirsi delle performance
Nel complesso, si potrebbe dire che la media delle performance perde progressivamente di impegno man mano che si prosegue nella visione. Già, potrà sembrare assurdo mettere il peggioramento in relazione allo scorrere del film (si sa, del resto, che l’ordine delle riprese non coincide con l’ordine cronologico della trama), eppure l’impressione è proprio quella di una sciattezza che dilaga di pari passo al passare dei minuti.
La recitazione di Margherita Buy, ad esempio, crolla in fatto di credibilità durante l’ultimo atto, anche se forse la colpa è in parte di alcune battute fin troppo didascaliche, in cui il suo personaggio rimugina ad alta voce sul passato traendone un bilancio.
Lo sguardo affilato di Alba Rohrwacher, efficace se si considera ogni scena in relazione solo a se stessa, rischia alla lunga di diventare ripetitivo e di perdere di incisività.
Convincono di più le interpretazioni di Adriano Giannini, di Riccardo Scamarcio e della piccola Chiara Abalsamo, sebbene non si possa tacere che i loro rispettivi personaggi offrano meno insidie performative con cui fare i conti.
Fortunatamente, comunque, Tre Piani non deve contare solo ed esclusivamente sulla sceneggiatura: a riscattare gran parte dell’opera ci pensa la colonna sonora, formidabile nel dare eco al senso di fatica e conflitto delle vite dei protagonisti. Ma, è chiaro, sceneggiatura e colonna sonora da soli non bastano a elevare un film nella categoria dei “da guardare”.
Tre Piani non è un film mediocre, ma nemmeno un film significativo: è un film nella media, ben estraneo dal resto della caratteristica produzione morettiana.