Cosa vuol dire riflettere sul G8 di Genova vent’anni dopo, durante una crisi pandemica? Non è una domanda inedita e le risposte possibili sono molte e non facilmente riassumibili. Vuol dire riflettere sui meccanismi economici, sulle dinamiche politiche, sull’articolazione della giustizia. Vuol dire mettere in discussione, ancora una volta e da una prospettiva molto ben definita, cosa eravamo, cosa siamo e cosa saremo. Vuol dire riappropriarsi di un tipo di esercizio di dissenso che, forse, vent’anni dopo, nel contesto italiano, non esiste più. Vuol dire interrogarsi sui limiti di chi amministra, ma soprattutto su quelli di chi mette in pratica, concretizzandole, le decisioni degli amministratori.
Genova, luglio 2001: le premesse
La ricostruzione di ciò che è successo al G8 di Genova del 2001 è tutt’ora complicata, ma dopo anni di indagini e processi esistono dei punti fermi che guidano tra il groviglio delle testimonianze, delle accuse, delle giustificazioni di cui si può ancora oggi percepire la durezza. Ci sono immagini, racconti, interrogatori, così concreti e taglienti che non possono che essere definiti duri.
Mentre Genova, città solo dopo giudicata come inadeguata a ospitare un evento e una manifestazione di questa portata perché “topograficamente inadatta alla gestione dell’ordine pubblico”, da un lato vedeva i leader delle principali potenze economiche mondiali discutere di come “sostenere l’economia dei paesi più fragili secondo una strategia integrata”, dall’altro assisteva a quella che è stata definita come una delle più grandi sospensioni dello stato di diritto della storia italiana. Come la situazione sia degenerata è tristemente noto a tutti, come la cattiva gestione del disordine e dell’immagine mediatica trasmessa siano stati determinanti anche.
Il 19 luglio trascorse caratterizzato da un fermento pacifico, l’inizio di un climax ascendente previsto dai servizi segreti, agognato dai manifestanti. L’obiettivo dei cortei previsti per il giorno successivo era quello di violare simbolicamente la “zona rossa” istituita a protezione dell’area in cui l’incontro dei leader sarebbe avvenuto, premendo contro le grate alte tre metri che costituivano il muro di otto chilometri che delimitava la zona auspicabilmente inviolabile.
I fatti del 20 luglio
Il 20 luglio però la situazione si complicò: la presenza ingombrante dei Black bloc, distruttiva e violenta, fu totalizzante e il tentativo di contrasto delle forze dell’ordine altrettanto disordinato. Una ricerca furiosa e spasmodica che si scontrò con il corteo, fino ad allora pacifico, dei centri sociali.
I militari caricarono la massa senza rendersi conto di farlo in una zona senza vie di fuga e la situazione nelle ore successive e per il resto della giornata degenerò: lacrimogeni, blindati bloccati tra loro e circondati dalla folla, due camionette Defender incastrate in Piazza Alimonda, colpi di pistola. Fu proprio a questo punto degli eventi che Carlo Giuliani, 23 anni, manifestante, morì, colpito da un proiettile allo zigomo mentre tendeva in aria, sopra la testa, un estintore. “Uno a zero per noi” fu il commento di una poliziotta. Mario Placanica, il carabiniere che impugnò la pistola e sparò ad altezza uomo, fu indagato per omicidio, ma fu prosciolto per legittima difesa e uso legittimo delle armi. Il suo colpo destinato altrove, sembrerebbe essere stato deviato nella traiettoria. Fu dimesso nel 2005 perché “inadatto al servizio”.
Ancora violenze (senza fine)
Il 21 luglio la durezza degli scontri aumentò sebbene le dinamiche rimasero le stesse, con i cortei potenzialmente pacifici schiacciati tra la furia sregolata dei Black bloc e la risposta violenta delle forze dell’ordine, in un caos senza via di uscita. L’apice fu raggiunto tre minuti prima della mezzanotte con l’ormai notissima irruzione nel comprensorio Diaz, nel quartiere Albaro, costituito dalle due scuole Pascoli e Pertini, dentro cui dormivano i ragazzi e ragazze, soprattutto stranieri, che avevano partecipato alle manifestazioni.
Quello che accadde dopo fu definito dal funzionario della polizia Michelangelo Fournier: “una tonnara”. Trecentocinquanta uomini, tra cui una parte in borghese e con il volto coperto, portarono avanti l’operazione di irruzione contro giovani disarmati con una violenza e un accanimento impossibili da giustificare. Accanimento e violenza che, come è noto, caratterizzarono con ancora più crudeltà anche il trattamento riservato ai cinquecento individui fermati e trattenuti nella caserma Bolzaneto, la cui dignità umana fu violata con la stessa determinazione e impunenza con cui sistematicamente era stata violata quella dello Stato e della vocazione che la divisa militare rappresenta.
Vent’anni dopo
Il numero di presenze di quel luglio 2001, che seguiva l’onda nata dalle manifestazioni di Seattle 1999, raccontano di un coinvolgimento e di una determinazione che vent’anni dopo è innegabile che siano difficili da trovare, ma anche da immaginare, nello scenario pandemico in cui siamo immersi e che ancora si prospetta.
La mobilitazione dal basso è qualcosa che ci appartiene ancora? La dimensione fisica delle mobilitazioni sociali è qualcosa da cui ci stiamo allontanando e nemmeno troppo lentamente? I temi che infiammavano la volontà di chi credeva nelle manifestazioni di Genova sono temi ancora attuali, sono problemi quanto mai concreti e determinanti. Ripensare l’ordine economico, scegliere una dimensione ambientalista e ambire a una riforma fiscale sono tutt’oggi il fulcro di chi crede che l’ordine presente delle cose non sia il migliore possibile. Ma questa insoddisfazione finisce forse per essere un’insoddisfazione che rimane latente.
I ventenni di oggi hanno altri mezzi? Il movimento Fridays for Future ha dimostrato che non è così, ma senza dubbio la comunicazione del dissenso adesso passa attraverso altri canali. Sono canali più blandi perché virtuali? È una questione che rimane aperta, ma in questi vent’anni l’unica cosa che è sicuramente cambiata è la progressiva e totalizzante presenza di internet.
Ai tempi del G8 la rete era, sì, stata determinante, e penso a Indymedia ad esempio, ma era rimasta un semplice mezzo per raggiungere un obiettivo: quello della concretezza dei corpi che protestano. Internet oggi non è più solo mezzo ma è anche luogo, è piazza virtuale, dove è ancora possibile urlare, ma attraverso il caps lock. Una trasformazione con grandi potenzialità.
Online come offline servono regole con cui mantenere sempre un equilibrio tra le parti in causa. Equilibrio che né oggi né nel 2001 a Genova si è stati in grado di creare e tutelare. Il nuovo millennio non è cominciato andando in questa direzione e i problemi di allora, i giochi di potere in cui si concretizza l’esercizio del potere stesso, sono ancora tali. Uno sbilanciamento fatto di disuguaglianze che con le consapevolezze di oggi appare sempre più paradossale e inattuale.
Le sfumature del dissenso
Considerazioni come queste non sono certo nuove, ormai parte di un repertorio da cui si attinge sempre più spesso e soprattutto in queste circostanze, quelle di un anniversario doloroso. Ma non sono per questo inutili. Anzi. Se la necessità impellente del distanziamento sociale ha gettato acqua sul fuoco già tenue negli animi dei ventenni di oggi, ricordare e riflettere su quello vigoroso dei ventenni di allora può forse ispirare i primi e rendere giustizia ai secondi.
Porsi l’obiettivo di un mondo migliore per quanto possa ormai sembrare idealistico nel clima cinico di oggi, non può che essere utile nel momento in cui lo si fa nella propria quotidianità, ripensando concretamente e attivamente i nodi delle tensioni sociali, economiche e politiche. Non attraverso l’indignazione e l’insofferenza cieche e potenzialmente ottuse, ma attraverso la costruzione ragionata di una nuova strada tramite cui è possibile esercitare un dissenso culturalmente attivo.
Reclamare l’aggiunta dei numeri identificativi sui caschi dei militari, ribellarsi alle rappresentazioni mediatiche distorsive oggi come allora, vuol dire isolare due dei problemi e sapere quindi da dove partire per fare il primo passo verso la soluzione di attriti che non possono continuare a essere ignorati.