Quando si parla di tutela ambientale, è con impeto automatico che insorgono reticenza e fatica a impegnarsi in tal senso. Anche insistendo sulla verità che, nel giro di pochi anni, se non ci si fa carico di provvedimenti sistematici, il pianeta passerà la soglia del collasso. Anche nella consapevolezza di questa agghiacciante urgenza, decollare dalla propria comfort zone sembra un’impresa insormontabile.
Il problema è la concezione della salvaguardia dell’ambiente come uno slancio verso l’esterno, uno slancio tanto meno invitante quanto più si visualizza questo “esterno” come un’entità astratta, un siparietto fatto di alberi, fiorellini e verde inconsistente. A visualizzare la natura in questo modo, dopotutto, è chiaro che il sacrificio di molte delle proprie abitudini in suo nome diventa un’opzione mortificante.
Ma si tratta di una concezione tutta erronea, un pigro malinteso. Per dissolverla, impelle operare un semplicissimo slittamento di paradigma: tutelare la natura non è un sacrificio, non è uno scambio in cui si perde qualcosa a favore di un “altro”; è invece l’unico modo per salvare se stessi – salvarsi non nell’anima o nella coscienza, beninteso, ma salvarsi sul serio, nel concreto, qui e ora. Proteggere la vita dell’ambiente significa proteggere la propria vita, perché noi, di questo ambiente, siamo componente simbiotica.
L’incandescente 2021
Siamo tutti abituati a sentire il notiziario che, ogni anno, puntualmente, si mette a profetizzare un’estate più calda di tutte le precedenti. È un ritornello così vecchio che ormai lo aspettiamo con il sorriso, quasi che la sua ripetitività riesca a minarne la temibilità. Ebbene, anche quest’estate si conferma come la più calda degli ultimi tempi. Di gran lunga.
Il Canada, negli ultimi giorni, è stato vessato da temperature prossime ai 50°C. Il tormento non è stato tanto il calore in sé, quanto piuttosto la ferocia con cui il caldo, nella regione della British Columbia in particolare, ha preso corpo in una terrificante invasione di incendi: se ne sono contati, sparsi sul territorio, fino a 177. Oltre a divorare i boschi canadesi, il fuoco ha colpito anche la cittadina di Lytton, a 3 ore di auto da Vancouver, letteralmente demolendola fino alle fondamenta. Il caldo atipico ha ucciso centinaia di persone in tutto lo stato, e ha provocato un olocausto di circa un miliardo di cozze, vongole e lumache, insidiando alla radice vaste porzioni di ecosistema.
Dead mussels in British Columbia, Canada. Experts say a ‘heat dome’ probably killed 1bn marine animals
Photograph: Christopher Harley pic.twitter.com/0UwVVdnYrn— Jon Pinter (@pinter_jon) July 9, 2021
Nel resto del mondo, altri effetti distruttivi delle ultime ondate di calore si sono registrati in Pakistan, dove 20 studenti di una stessa scuola hanno perso conoscenza, e in Bangladesh, dove due giorni di aria rovente hanno sterminato 68mila ettari di riso. Tornando in casa, infine, una vera e propria siccità ha ridotto la portata del nostro Po del 30 %, condannando l’agricoltura a perdite inaccettabili.
“La fine è vicina”
Le avvisaglie di un’autentica apocalisse climatica? Negarlo sarebbe ardimentoso. Quest’anno l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), la tavola rotonda dell’ONU riguardo i cambiamenti climatici, ha messo in luce che il clima sta mutando sempre più rapidamente, molto più del previsto. Il punto di non ritorno verso cui corre il riscaldamento globale sta per essere valicato…
Ma noi questo lo sappiamo già, non è così? È da decenni che i climatologi di tutto il mondo ammoniscono sulle conseguenze della quotidiana dissolutezza ambientale, e oramai certi pronostici ci sono talmente familiari che abbiamo anche l’ardire di sorriderne. Gli annunci che “la fine è vicina”, nell’immaginario comune, sono più attinenti alla sfera della commedia che a quella della realtà. Purtroppo, invece, la fine è veramente vicina. E se siamo soliti ascoltare gli esperti che, ogni anno, parlano di un countdown fatto di decadi, non sarà un sorpresa che oggi quel countdown si sia compresso. Al 2050 la soglia del collasso? Può darsi. Anche se, in realtà, è presumibile immaginare uno scoppio già per il 2030.
Nessuna retorica allarmistica, solo dati tangibili. Il fatto è che non bisogna per forza pensare a terremoti, eruzioni e tsunami per prevedere l’apocalisse ambientale: il collasso che dobbiamo aspettarci non avrà la faccia di un rovesciamento esplicito della natura, perché prima ancora di arrivare a quel punto soffriremo il prodotto di infinite reazioni a catena che abbiamo innescato tempo fa.
Come analizzato dal diplomatico italiano Grammenos Mastrojeni (che abbiamo avuto il privilegio di incontrare durante il nostro secondo webinar), gli eventi ambientali hanno sempre ricadute su tutti gli altri ambiti del vivere, in primis su quello economico (come evidente dalle ripercussioni immediate sull’agricoltura) e, di riflesso, su quello politico. Mastrojeni parla di “effetti farfalla” in sequenza, spirali cumulative di alterazioni che finiscono per coinvolgere ogni ambito del vivere.
Il valore della prevedibilità
Il riscaldamento globale trasforma gli habitat, gettandoli nell’incertezza climatica e rendendo imprevedibili i fenomeni ambientali.
La vita per strutturarsi ha bisogno di ciclicità prevedibili – spiega Mastrojeni – come sono ad esempio le stagioni, relative alla ciclicità dell’orbita del nostro pianeta intorno al sole. In assenza di prevedibilità non potrebbe esserci la vita – e, in particolare, – non ci sarebbe organizzazione economica: come fa l’agricoltore a pianificare la semina se non ha la benché minima idea di quando pioverà? Come fa l’amministratore dell’acquedotto di Milano a pianificare la distribuzione d’acqua se non ha la minima idea di quando saranno innevate le Alpi?
Resi imprevedibili, molti habitat diventano scarsamente sfruttabili, e quindi difficilmente vivibili. Il cambiamento climatico limita la disponibilità di risorse vitali (si pensi ai suddetti casi del Po e del Bangladesh), il che inevitabilmente genera conflittualità intorno al possesso di tali risorse limitate. Impossibilitati a farsi valere nelle guerre che ne derivano, molti dei residenti si vedono costretti a cercare vita altrove, spostandosi verso altre zone, altre regioni, altri stati… e sappiamo tutti quanto i flussi migratori possano essere, a loro volta, motivo di conflitti.
Per farla breve: clima e guerre, guerre e migrazioni, migrazioni e guerre.
Per il bene della comfort zone…
Ora, si calcola che nei prossimi decenni ammonterà a 200 milioni il numero di persone costrette a fuggire dai propri paesi per motivi climatici. 200 milioni di individui in cerca di un posto dove stabilirsi. Chi li accoglierà? Si pensi a quanto odio solleva ogni volta in Italia una manciata di cento migranti, o all’eterna questione israelo-palestinese, scaturita dalla contesa per una striscia di terra; si pensi a queste situazioni emblematiche, e si potrà scorgere un frammento della minaccia di caos a cui l’umanità è destinata per ragioni originariamente ambientali.
“Non c’è spazio per tutti quanti”, oggigiorno, è uno degli slogan più in voga. Ma questo rischio di sovrappopolamento, nei fatti concretissimo, è calcolato su una quantità di spazio abitabile che sta scemando di giorno in giorno: è un rischio ben più ingente di quanto denuncino le lamentele anti-accoglienza, è un pericolo sempre più reale.
La preservazione della stabilità climatica è tappa obbligatoria per scongiurare densità demografiche soffocanti, per scongiurare gli scontri che scattano tra conviventi forzati, per scongiurare la rovina a questi scontri consequenziale.
Si potrebbe ribattere che, piuttosto che perdere tempo con l’ambientalismo, la soluzione sia cominciare fin da subito a respingere qualsiasi profugo lontano dai propri confini: preservare direttamente la propria patria, anziché cimentarsi nella preservazione del clima dei paesi da cui viene questa gente.
Al contrario, sono proprio simili dinamiche di respingimento, di violenza, di conflitto che vanno disinnescate, se la speranza è quella di spegnere il vortice di flagelli poc’anzi sintetizzato.
L’impegno nella tutela dell’ambiente non consiste in un sacrificio della propria comfort zone, perché è invece l’unica via per proteggerla, questa zona di equilibrio. La natura non ci chiede di rinunciare a noi stessi per aiutarla a salvarsi, bensì ci invita a pensare proprio a noi stessi, al nostro benessere, e a renderci conto che il benessere umano esiste solo in funzione del benessere ambientale.
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