Le teorie del complotto sono opinioni. Teorie, per l’appunto, ipotesi. E nelle ipotesi non c’è mai stato niente di male, anzi: si tratta del primo passo sulla via per la conoscenza.
L’ipotesi è una possibile interpretazione della realtà, l’ipotesi è possibilità: possibilità che la realtà sia così, ma anche possibilità che la realtà non sia così. L’ipotesi non è una bella e chiara fotografia, non è un fermo immagine dai contorni precisi; è invece una sfocatura, un dinamismo, disponibile ad assumere una forma come mille altre.
Scaturisce sempre da una domanda: “E se il vaccino fosse pericoloso? E se le mascherine fossero inutili? E se il Covid fosse tutta un’invenzione?”. Finché si mantiene come domanda, aperta tanto a un “sì” quanto a un “no”, l’ipotesi non impedisce al buonsenso di fare un bilancio di tutte le possibilità in gioco, ponderando i rischi in corso e i sacrifici necessari per sventarli.
Ma quando il punto interrogativo cade nel vuoto; quando la sfocatura si chiude in una sagoma; quando l’opinione si pietrifica in certezza: è allora che il complottista rinuncia a essere un cercatore della verità, paralizzando la propria indagine nella convinzione che, tra le infinite possibili interpretazioni del mondo, quella giusta sia una e una soltanto.
“Complottista”: una definizione
In merito al termine “complottista”, però, sarà bene aprire una parentesi, dal momento che spesso il ricorso a questa etichetta provoca un rovinoso malinteso.
Il caso è quello in cui, nel designare qualcuno come “complottista”, si finisce implicitamente per attribuirgli, senza distinzione, tutta una serie di sotto-epiteti ritenuti simultanei: “no-vax”, “terrapiattista”, “negazionista del Covid”, “negazionista dell’allunaggio”, “no-mask”, “negazionista dell’Olocausto” e chi più ne ha più ne metta.
Ovvero, basta che un individuo dichiari di ritenere rischiose le vaccinazioni perché, automaticamente, venga da molti additato di credere e che la Terra sia piatta, e che l’impresa dell’Apollo 11 sia stata tutta una montatura, e che i lager nazisti appartengano solo a favolette del terrore; quando, in realtà, non è detto nemmeno che il no-vax debba essere contrario all’uso della mascherina, o che stia negando l’esistenza del Covid: lui ha detto soltanto di non fidarsi dei vaccini, tutto il resto gli è stato affibbiato in virtù di un pregiudizio meschino.
Di questo “fare di tutta l’erba un fascio” è un esempio eloquente uno sketch del programma tv Un’ora sola vi vorrei, in cui il comico Alessandro Betti, interpretando la parodia di un negazionista, ricade proprio in questo stereotipo:
Questo equivoco è insito nella definizione che più comunemente si dà del lemma: cercando su Google “significato di complottista”, il primo risultato è “Chi tende a interpretare ogni evento come un complotto o parte di un complotto”. È in quel “ogni” che sta la generalizzazione, l’ingresso nell’immaginario comune del complottista “tutto d’un pezzo” che scova congiure dappertutto: una caricatura più affine al mondo dei cartoni animati che a quello reale.
Una definizione più appropriata e verosimile la fornisce Treccani: “Chi ritiene che dietro molti accadimenti si nascondano cospirazioni, trame e complotti occulti”. L’effetto grossolano della precedente espressione “ogni evento” viene qui ridimensionato con la sostituzione “molti accadimenti”, restituendo un ritratto meno farsesco e più obiettivo.
Parlare di un “complottista” non vuol dire parlare di un fautore di tutti i complottismi: ciascuno di loro è orientato verso determinate teorie del complotto, ed estraneo ad altre.
Non tener conto delle diversificazioni interne a questa macro-etichetta significa deformare, gonfiare un’opinione solo per poterle dare addosso più facilmente. Significa dare molte cose per scontate, commettendo quindi lo stesso, pericoloso errore di un accanito negazionista sceso in piazza senza mascherina.
Dogmatismo da una parte e dall’altra
In effetti, alla tentazione di dare qualcosa per scontato possono cedere entrambi, sia il complottista sia il non-complottista. L’approccio dogmatico alle informazioni, l’accettazione passiva di “tutto quello che ci dicono”, caratterizza tanto i sostenitori di una teoria del complotto quanto i suoi sbeffeggiatori.
Ostinarsi a credere che i vaccini siano pericolosi non è meno acritico che essere convinti della loro efficacia: ognuno dei due atteggiamenti è immobile nella propria posizione, rifiutando con intransigenza di contemplare la possibilità sostenuta dall’altro.
Quanto è buffo assistere a un dibattito tra un no-vax e un pro-vax: il primo accusa l’altro di lasciarsi ingenuamente imboccare dalle parole dei media, dei politici e degli scienziati; il secondo deride il primo per la facilità con cui accoglie numeri datigli in pasto da qualche sito internet.
Il no-vax accusa di “chiusura mentale”, e intanto resta chiuso nelle proprie convinzioni. Il pro-vax gli dà del “credulone”, ma anche lui crede alle proprie fonti di fiducia, subito snobbando come “ridicolo” chiunque le contraddica.
Ognuno dei due, insomma, si affanna a far vedere all’altro tutto ciò che sta dando per scontato… senza rendersi conto di quello che lui stesso sta dando per scontato.
Proprio il complottista, in particolare, dovrebbe avere tutte le carte in regola per accorgersi della propria incongruenza, essendo lui il primo a condannare la fede aprioristica nel TG e a volersene emancipare. A che scopo, d’altronde, salpare da una sponda del dogmatismo per incagliarsi disperatamente in quella di fronte? In ragione di quale bizzarro criterio egli mette in discussione una fonte (i medici, ad esempio) senza applicare lo stesso, sano sospetto alle altre (i siti internet “fuori dal coro”)?
Un vero complottista andrebbe fino in fondo. Un vero complottista non si limiterebbe a ipotizzare, per dirne una, che il Covid sia una banale influenza, ma dubiterebbe anche di quelle stesse voci che sostengono ciò. Non si fermerebbe a sospettare di alcune informazioni, ma le coinvolgerebbe nel suo dubbio tutte quante.
Il dubbio
Il principio del dubbio, del dubbio autentico, imparziale, è una semplicissima ammissione da pronunciare davanti allo specchio: “Io non so”. Semplicissima, e allo stesso tempo così dolorosa, così insopportabile.
Il primo uomo ad accettare questa presa di coscienza (o, per essere coerenti e intellettualmente onesti, il primo uomo di cui si sa) fu Socrate, vissuto nell’Atene del V secolo a.C. «La sola cosa che so» spiegava Socrate «è proprio questa: io so di non sapere».
Ecco la primissima, basilare scintilla per poter sperare se non di raggiungere, quantomeno di tendere verso la verità: sapere di non sapere, essere coscienti di non avere le risposte. Dopotutto la ricerca della verità, il desiderio di conoscenza, l’amore per il sapere (insomma la “filosofia”) non può partire senza che prima ne sia stata percepita la mancanza, del sapere: nessuno si mette in viaggio se è convinto di essere già a destinazione; nessuno cerca qualcosa se crede di esserne già in possesso.
Ma com’è faticoso, com’è straziante pronunciarsi questi tre monosillabi! Tutti quanti hanno bisogno di punti fermi, stabili scogli a cui potersi aggrappare senza temerne un improvviso collasso. E non deve trattarsi per forza di sicurezze mistiche o spirituali, sia chiaro: sarebbe sufficiente, per fare un esempio, poter sempre fare affidamento sulla legge di gravità. Ma cosa può saperne, l’essere umano, di questa sedicente “legge”, se non che finora è sempre stata valida? Chi o cosa ci garantisce che, da un momento all’altro, quella che è sempre stata una forza di attrazione verso il suolo non si ribalti in repulsione, sbalzandoci con violenza verso le profondità siderali?
Tutto quello che si conosce riguarda il passato, il “fino ad ora”, unico campo di analisi per tentare di prevedere il futuro; ma non è per niente scontato che quello che era ieri sarà anche domani.
Questa assurda provvisorietà dell’esistenza, per i più, è completamente inaccettabile. L’assenza di certezze espone a una terrificante instabilità, il “non sapere” è un pendere in bilico sull’abisso del vuoto. E il vuoto fa paura.
L’audacia del grigio
Dev’essere stato un terrore del genere a spingere gli Ateniesi a volersi liberare di Socrate. Pur di non dover fare i conti con quel vuoto raccapricciante e intollerabile, pur di esorcizzare l’abisso che lui aveva scoperchiato, pur di tornare a dormire dopo essere stati svegliati, i suoi concittadini si mossero per metterlo a morte, avvalendosi di un’accusa tutta fittizia: lo portarono in tribunale per miscredenza nei confronti degli dei dell’Olimpo. In realtà, Socrate non si era mai sbilanciato a negare l’esistenza degli dei, come invece aveva fatto un altro ateniese suo contemporaneo, Crizia – e Crizia era proprio un complottista convinto, si potrebbe dire il capostipite del complottismo, con il fermo parere che gli dei fossero un’invenzione dei governanti per incentivare il rispetto delle leggi.
Socrate no, lui degli dei non aveva la pretesa di saper niente: come avrebbe potuto lui, piccolo uomo in carne e ossa, verificare o confutare l’esistenza di esseri celesti inarrivabili? Lui non sapeva se gli dei esistessero o meno, come non sapeva nulla di qualsiasi altra questione.
Ma quel suo “io non so” non poteva essere digerito, e finì per essere letto come un “io non credo”: la rinuncia a una presa di posizione fu fatta passare per una presa di posizione in negativo, e su questa bugia si fondò la condanna.
Affermando di “non sapere”, Socrate si era chiamato fuori sia dalla cultura di massa del suo tempo (persuasa dell’esistenza degli dei) sia dalla cultura complottista (secondo cui gli dei erano una bufala). Il filosofo si era guardato a destra e a sinistra, osservando quelli che vedevano il mondo bianco e quelli che lo vedevano nero; li aveva osservati entrambi, e aveva deciso di prendere posto nell’angusto interstizio in mezzo ai loro attriti. Né bianco né nero, era rimasto nel grigio. Uno sbiadito, indefinito grigiore… Il colore del cervello.
Ma i grigi non piacciono mai, a nessuno. Il loro sottrarsi alla scelta di un vessillo viene declassato a viscida ignavia, pudore per la battaglia. Tutto il contrario: non c’è niente di più audace che guardare in faccia la sterminata infinità del possibile senza darne per scontato neanche un granello.
Ad ogni domanda infinite risposte
È infatti quest’audacia a trasformare in domande le certezze più comuni. Il presupposto è sempre lo stesso, non mancare mai di chiedersi: “Cosa ne so io?”.
“Io non ho mai visto la Terra dallo spazio, quindi cosa ne so di che forma abbia?”;
“Io non c’ero ad Auschwitz durante la Seconda Guerra Mondiale, quindi cosa ne so che fosse davvero un campo di sterminio?”;
“Io non ho assistito di persona al primo passo di Armstrong, quindi cosa ne so che si trovasse davvero sulla Luna?”;
“Io non lo vedo il Covid-19, quindi cosa ne so che esista sul serio?“.
A dubbi del genere si può rispondere nel modo standard, cioè che la Terra sia tonda e che l’Olocausto sia
Si può rispondere in qualsiasi modo, veramente qualsiasi: il dubbio non conosce serrature, non si cura di sfondare in quello che si ritiene generalmente “inverosimile” o “improbabile”, perché gli stessi parametri di verosimiglianza e probabilità possono esser discussi.
Ma quello che è indispensabile, fondamentale, imperativo è questo: non darsene una sola, di risposta. Arenarsi su un’unica ipotesi significa convincersi a priori che tutte le altre siano sbagliate, e questo non è “mettere in discussione”, bensì è un fermare la discussione, arrestare la ricerca, fingere di possedere la verità.
Si pensi soltanto a quanto è precisa, articolata e testardamente univoca la visione del mondo declamata dalla Flat Earth Society (FES), fatta di convinzioni iper-dettagliate come quella per cui Sole e Luna sarebbero illusioni cinematografiche. A essere onesti, l’ipotesi in se stessa non è poi così inammissibile: come può un uomo medio dare per scontato che i politici e la NASA non lo stiano ingannando? Quello che allibisce, tuttavia, è l’accanimento con cui la FES si aggrappa a questa e a nessun’altra visione della realtà, per non parlare dell’ardore da stadio con cui la difende.
Non si tratta più di una teoria, a questo punto, ma di un credo: questo tipo di terrapiattismo idolatra una proposta per demonizzarne infinite altre ugualmente plausibili. Se le domande di partenza sono “Cosa ne so di che forma abbia la Terra? Cosa ne so che il Sole e la Luna siano davvero come me li raccontano?”, allora non sarà più ingenuo congelarsi sulle risposte standard che congelarsi su quelle complottiste. Il dubbio deve rimanere attivo, aperto; deve rimanere domanda, tensione, ricerca. Nel momento in cui sfocia in risposta e se ne appaga, invece, il dubbio muore, l’indagine si fossilizza, il forziere della verità rimane seppellito e la mappa del tesoro finisce tra le fiamme.
Ora, scartare a priori una teoria del complotto sarebbe da stolti. Un no-vax non deve essere deriso, perché riderne significherebbe dare per scontato che sia in errore. Ma, allo stesso modo, un complottista non può permettersi di fare il tifo per una teoria del complotto lanciando pomodori a tutte le ipotesi “avversarie”.
Un vero complottista mette in discussione anche gli stessi complottismi. Un vero complottista va fino in fondo.