Una manciata di anni fa, quando in Italia i podcast circolavano ancora poco, il giornalista Pablo Trincia s’imbatté in Serial, una serie true crime americana fatta per essere ascoltata, che ricostruiva il caso di un vecchio e noto omicidio. Trincia pensò di replicare l’idea, ma gli mancava una storia simile da raccontare. La trovò in due paesini della provincia di Modena, sepolta da quasi due decenni, benché avesse tutti gli elementi per restare impressa nella memoria condivisa. La vicenda, avvenuta tra il 1997 e il 1998, era nota come “il caso dei Diavoli della Bassa modenese”: 16 bambini affidati ai servizi sociali, le rispettive famiglie accusate di satanismo e pedofilia, e la scoperta, qualche tempo dopo, che forse nulla era accaduto. Forse si era trattato di un falso ricordo collettivo. Ciononostante quei bambini non tornarono mai più a casa.
Dopo tre anni trascorsi a mettere insieme fonti con l’aiuto della collega Alessia Rafanelli, nel 2017 Trincia pubblicò il podcast Veleno. Che due anni più tardi divenne un libro edito da Einaudi. Di recente è diventato una docuserie di Prime Video. Ogni volta schivando con cura la morbosità esibita e ridondante che spesso, alla lunga, rende il genere true crime difficile da digerire. Al punto da riuscire anche a rianimarla e cambiarla, quella storia.
Veleno – il podcast – bisogna immaginarselo come una specie di audiocassetta a nastro. I primi episodi sono il lato A, quello che conduce alle stradine di Mirandola e Massa Finalese, due paesini periferici dove tutti sentirebbero una piuma cadere, eppure nessuno si è mai reso conto che di notte, nei cimiteri, accadono cose terribili: si parla di riti satanici, di violenze sessuali e di bambini costretti a uccidere altri bambini. E siccome sono proprio i bambini, a raccontarlo, la macchina dei servizi sociali si attiva per denunciare le rispettive famiglie e affidarli a nuovi genitori.
Poi però si passa al lato B, quello delle prove mai trovate, dell’inesperienza (o meglio, incompetenza) di psicologhe e assistenti sociali, e dell’alta probabilità che i racconti raccapriccianti da cui è partito tutto siano il prodotto di una suggestione. Perché, se un adulto sotto pressione può arrivare a confessare un omicidio mai commesso, figuriamoci un bambino.
Questa è la parte su cui il podcast si sofferma di più. Una volta girata l’audiocassetta, Trincia non torna quasi mai al lato precedente. Gli episodi procedono riflessivi, infilando una dopo l’altra le storie di vicende simili accadute altrove e le spiegazioni lineari di specialisti competenti. Il suo obiettivo – lo dice lui – è capire e far capire come sia accaduto che una piccola goccia velenosa abbia potuto dissolversi in un bicchiere d’acqua fino a rendere impossibile distinguere la parte sana da quella tossica.
Veleno – la docuserie – quell’audiocassetta la maneggia diversamente: la prende per poi girarla, rigirarla e girarla ancora. Il podcast scritto da Trincia è la sua ossatura, ma da lì i cinque episodi si ampliano per fornire una visione più completa della vicenda. L’idea di Ettore Paternò e Hugo Berkeley – il produttore e il regista della serie – era di bilanciare la storia, renderla più equilibrata dando spazio a tutte le voci di chi l’ha vissuta. Anche quelle che con Trincia avevano rifiutato di parlare, come i genitori affidatari e alcuni ragazzi tutt’oggi convinti degli abusi denunciati vent’anni fa.
Con un lavoro di oltre due anni, Paternò e Berkeley hanno cercato di colmare gli interrogativi lasciati dal podcast; compresi quelli sul metodo con cui Trincia ha condotto la sua inchiesta e sui dilemmi etici che si è posto lungo il percorso.
La serie di Veleno è una progressione ordinata di fonti vecchie e nuove, approfondimenti, testimonianze. Le ricostruzioni – poche – dei fatti di cui non si hanno materiali diretti sono oculate e mai ridondanti. Veleno non intende fornire una sua versione, perciò sta ben attenta a dare a ogni ritaglio lo stesso peso. Il compito che si è data è di rendere concreta la sua storia con l’eloquenza delle immagini; registrare gli eventi, fotografarli e poi posizionarli con cautela su una mappa riconoscibile a chiunque abbia messo piede almeno una volta in un qualunque fazzoletto di provincia italiana.
Quella di Veleno, infatti, è una vicenda che si percepisce molto meno lontana di quanto le montature spesse, i vestiti informi e i capelli voluminosi dei protagonisti – cristallizzati negli anni Novanta – la facciano sembrare.
La serie racconta di una paura comune a tutti: l’idea che una mano estranea possa inserirsi in casa tua, e senza apparente motivo instillare dubbi fino a rompere gli equilibri delle tue relazioni più sicure. È la mano di una parte di Italia che non è cambiata. Cioè la mano dell’inconsistenza professionale, della nebulosità giudiziaria e della morbosità dei media, che dopo aver scombinato vite, a un certo punto, si ritira silenziosa senza accennare scuse né fornire soluzioni. Così l’attenzione pubblica può girarsi da un’altra parte, dedicarsi a un nuovo caso. Mentre chi è stato avvelenato resta a gestire le sue emozioni con i meccanismi di difesa di cui dispone, sia il battagliare tenace o la negazione. Per rattoppare un’esistenza che ormai non tornerà più come prima.