Fumata bianca alla riunione del G7 di Londra: nascerà un’imposta globale minima per la tassazione delle multinazionali. Un passo storico “per un futuro più equo e socialmente giusto“, come ha dichiarato anche il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, anche se le difficoltà per arrivare alla sua effettiva entrata in vigore sono ancora diverse. Ciò che, ad oggi, è certo è che lo status quo non può essere accettato dalle grandi potenze occidentali e che qualcosa andrà cambiato: un primo fondamentale passo in questa direzione è stato fatto.
L’accordo cui sono giunti i ministri delle finanze dei sette Paesi consiste nell’impegno a istituire un’aliquota globale minima del 15% per le grandi aziende con margini di profitto superiori al 10% applicata Paese per Paese, prescindendo dalla localizzazione della sede di queste ultime.
Gli orizzonti della proposta e la situazione attuale
I principi ispiratori di questa nuova politica tributaria sono essenzialmente due, entrambi volti a modificare profondamente la situazione attuale: in primo luogo si intende evitare che gli Stati facciano una corsa al ribasso tra loro sulla tassazione per poter attirare sul proprio territorio le aziende multinazionali; inoltre, con questa regolamentazione della materia, si andrebbero a colpire quelle società che, forti dell’attuale assenza di accordi di questo tipo, possono evadere i tributi o pagarne in esigua quantità rispetto a quanto gli Stati ritengono, invece, corretto.
Attualmente, infatti, le aziende hanno la possibilità di creare filiali locali nei Paesi che garantiscono loro, tramite un’apposita tassazione molto bassa rispetto agli altri Stati, di pagare meno imposte dichiarandovi gli utili. Si tratta, spesso, di Paesi di ridotte dimensioni ed economie, come ad esempio Cipro o Irlanda, che si giovano di queste proprie norme per attrarre investimenti esteri. Alla stregua di veri e propri paradisi fiscali, peraltro interni all’Unione Europea e quindi falsandone indirettamente le regole di stabilità e libero mercato, questi Paesi rappresentano un grosso problema per le economie del G7, che ora vuole cambiare la situazione.
Perché è necessaria?
Secondo il ministro dell’economia italiano Franco, intenzionato a discutere la proposta già nel vertice di luglio del G20, occorreranno anni per vedere operativa la nuova aliquota, ma ha ribadito che questa, al pari del mantenimento delle politiche economiche espansive, resta fondamentale per la ripresa economica post pandemia.
I proventi di questa imposta andrebbero, infatti, anche a coprire gli immensi costi della crisi dovuta al Coronavirus, tanto più che proprio i colossi del digitale, anche grazie alle restrizioni, hanno visto i propri introiti aumentare. Ora che i dati delle economie mondiali accennano timidamente a migliorare, forti delle ingenti vaccinazioni di massa in tempi record, gli Stati sanno che con l’approvazione di una tassa globale sulle multinazionali si potrebbe dare un’ulteriore impulso positivo ai bilanci nazionali.
Le multinazionali soddisfatte: perché?
Occorre considerare che una tale normativa internazionale evita che i singoli Stati possano imporre, come già sta iniziando ad avvenire, proprie aliquote, più alte o intransigenti, che comporterebbero un maggior costo per adeguarsi a decine di tassazioni differenti e la difficoltà di intrattenere rapporti pacifici e proficui con quelli che sono i loro migliori bacini d’utenza.
Il boom delle industrie tecnologiche ha sempre causato, in aggiunta agli innumerevoli aspetti positivi, diverse difficoltà per i Paesi occidentali, come la proliferazione di paradisi fiscali o la concorrenza falsata con imprese locali. Oggi questa norma potrebbe risolvere diverse di queste annose questioni.
Non è tutto rose e fiori però
Le sfide non sono, però, finite, ma si prospetta al contrario un impervio sentiero prima di giungere alla effettività di questa imposta globale. La svolta, avvenuta per volontà del neo presidente USA Joe Biden dopo anni di stallo, comporta anche delle rinunce da parte delle nazioni europee del G7, in particolare per la Francia, alle quale è stato chiesto di eliminare la propria digital tax, che rischierebbero di essere ridondanti e nocive per i buon esiti del progetto. Inoltre in Unione Europea la questione sembra ancora lontana dall’essere accettata di buon grado da tutti i Paesi, anche se le quattro maggiori economie dell’Unione, Italia, Francia, Germania e Spagna, si sono impegnate in tal senso.
Se la Commissione Europea ancora non si è espressa, resta pur certo che dovrà modificare i propri progetti in materia di normativa digitale e tassazione. Inoltre, molti Stati che oggi beneficiano della situazione attuale si sono detti, chi più direttamente chi meno, contrari ad accettare il cambiamento: l’Irlanda si è mostrata scettica, mentre Cipro ha annunciato di voler porre il veto su tale normativa. Con la necessità di ottenere il consenso di tutti i membri, ancora una volta un enorme blocco che rende poco agevole e incisiva l’opera delle istituzioni europee, la partita dovrà essere giocata in sede diplomatica con punta di fioretto.
I vantaggi possibili
Le stime circa una tale imposta, però, fanno ben sperare. I Paesi potrebbero beneficiare di circa 50 miliardi di introiti annui, così che le entrate fiscali andrebbero ad aumentare di un tasso stimato tra il 13% e il 50%, a seconda delle diverse situazioni considerate. Un bel passo avanti che permetterebbe ai Paesi sia di ripagare i debiti contratti per rispondere alle esigenze pandemiche che per diminuire la tassazione diretta sui propri contribuenti.
Si tratta di innovazioni tributarie che, per loro stessa natura, necessitano di ampi e complessi studi per poter essere integrate con profitto nelle diverse legislazioni nazionali, ma che, certo, possono porre le basi per sempre più proficui accordi internazionali. Per un mondo globalizzato, infatti, servono oggi regole di impatto e respiro altrettanto globale.