Il trailer di Them, la serie horror di Prime Video uscita lo scorso aprile, inizia come una pubblicità del periodo del boom economico. Siamo negli anni Cinquanta, in un quartiere di Los Angeles tutto case pastello, dove una felice famiglia afroamericana si è appena trasferita tra sguardi di stupore e balli spensierati nel suo nuovo salotto.
Con l’ampliarsi dell’inquadratura, però, ci si accorge che tutt’intorno abitano solo bianchi. Radunati a grappoli sui loro giardini tosati al millimetro, scrutano perplessi i nuovi arrivati. “Inizia così. Con una famiglia…” dice una di loro. “Vengono da un posto peggiore. Dobbiamo rendere questo posto ancora peggio,” aggiunge subito dopo. In una frazione di secondo, il quartiere da sogno diventa un incubo fatto delle più classiche molestie razziste: versi scimmieschi, incendi, bambole nere impiccate e stralci di blackface.
Per Them l’horror è un’allegoria della ferocia che da decenni perseguita i cittadini afroamericani. Nelle intenzioni del creatore Little Marvin e della produttrice Lena Waithe, ogni stagione dovrebbe raccontare una diversa storia di discriminazione. Eppure una buona parte di pubblico si è lamentata della serie ancora prima che uscisse. In molti – soprattutto gli spettatori afroamericani – l’hanno definita un ennesimo tentativo di sfruttare i traumi vissuti dai neri per alimentare l’industria dell’intrattenimento.
Di film e serie tv come Them ne sono uscite parecchie negli ultimi anni. Più o meno da quando Hollywood si è resa conto di non essere così inclusiva come pensava e che dando più spazio ad artisti non bianchi, avrebbe concesso a un pubblico più ampio di sentirsi rappresentato.
Tuttavia, la grande maggioranza delle opere che ne sono seguite ha scelto di imboccare una via piuttosto impegnata. Quella cioè dove i personaggi neri sembrano poter assolvere a una sola funzione: informare (e spesso anche redarguire) il pubblico sulle sofferenze accumulate in anni di discriminazione e violenza razziale. Tanto che, ha scritto Aisha Harris su «NPR», “il pubblico conosce di più dei loro ultimi momenti sulla Terra, che di tutti i momenti della loro vita precedente”.
Gli effetti dei drammi sulla schiavitù o dei crime su errori giudiziari influenzati dal pregiudizio sono diventati di conseguenza alquanto paradossali. Usati da registi, attori e sceneggiatori – principalmente neri – come strumento di catarsi e rivendicazione, questi film e serie tv stanno iniziando invece ad affaticare e allontanare sempre più gli spettatori. Perché, si è chiesta la giornalista afroamericana Hannah Giorgis sull’«Atlantic», si tratti di persone che simili situazioni non le hanno vissute o che al contrario se ne portano dietro gli strascichi da generazioni, “chi vuole davvero vedere il dolore dei neri?”.
Per rendere meglio l’idea, Giorgis ha usato l’espressione “Black trauma porn”. Dentro ci ha inserito tutte quelle storie che di recente hanno rappresentato su uno schermo la discriminazione razziale con una dovizia di particolari quasi morbosa. Il caso forse più eloquente è quello del genere horror: da oltre un secolo gli artisti neri lo usano come un’efficace allegoria delle paure da loro vissute nella quotidianità americana. Nelle trame terrificanti, gli elementi sovrannaturali non sono che una metafora del vero antagonista: il razzismo.
Proprio al genere horror si può attribuire una parte consistente di merito nell’evoluzione dei personaggi neri. Storia dopo storia, ha permesso loro di uscire dall’invisibilità e fornito alle opere successive nuove istruzioni per una corretta rappresentazione.
Nel 1920 lo storico W. E. B. Du Bois pubblicò un racconto breve di fantascienza, La cometa, dove un uomo nero salvava una donna bianca nel mezzo di una catastrofe naturale, ma poi finiva per avere paura di essere linciato dalla famiglia di lei. La notte dei morti viventi, uscito nel 1968, fu invece il primo film horror dove un attore nero interpretava un eroe, anziché un mostro. Infine c’è Scappa – Get Out, il film di Jordan Peele che dal 2017 ha innescato la prolifica produzione di horror a tema razziale a cui stiamo assistendo.
Dopo il successo ottenuto da Peele (anche creatore di Noi e del reboot di Ai confini della realtà), Hollywood si è messa alla ricerca di altri horror che rappresentassero con altrettanta brillantezza la discriminazione razziale nell’America moderna. Questo ha portato solo negli ultimi mesi all’uscita di due serie molto simili come Lovecraft Country e Them.
Di rado però si è raggiunta l’efficacia delle produzioni di Peele, e secondo alcuni critici la spiegazione sta nell’autenticità dei personaggi neri. Pur vittime di orrori, i protagonisti dei film e delle serie di Peele sono persone normali e si comportano come tali, mettono mano alle proprie risorse per affrontare situazioni tragiche, e ne escono evoluti. Così la cruda critica sociale di cui la trama si fa portatrice assume un senso. Se la normalità dei personaggi viene meno, li si percepisce soltanto come archetipi, come vittime di una violenza molto grafica e quasi gratuita.
C’è poi un altro elemento che giustifica il recente spazientirsi degli spettatori: il bisogno di evadere dalla realtà. Negli stessi giorni in cui Amazon rilasciava Them, sui media americani usciva la notizia della morte di Duante Wright, un ventenne afroamericano ucciso da una poliziotta nel Minnesota. Non solo: tornavano anche a circolare i video dell’omicidio di George Floyd, per via della condanna al poliziotto Derek Chauvin. È quindi piuttosto improbabile che il pubblico sentisse l’esigenza di spegnere i notiziari per infilarsi in un’altra storia di persecuzioni razziste, riuscendo a distaccarsi dalla realtà. «Se avessi voluto farmi traumatizzare per 10 ore, avrei avuto già l’America da guardare» ha scritto lo scrittore Scott Woods.
Il recente criticismo nei confronti dei film e delle serie tv sulla violenza razziale non segna comunque la fine del genere. Ci sono ancora parecchie storie da raccontare e vedere. Semplicemente, ha detto Woods, bisognerebbe iniziare a incentivare anche punti di vista alternativi. Cioè non aspettarsi che le opere di artisti neri o con protagonisti neri debbano per forza sollevare questioni più ampie e impegnate. E soprattutto non rifuggire dalla paura di criticarle e di parlare dei quei vuoti che ancora mancano da colmare. L’arte nera dovrebbe infatti recuperare diverse lacune per poter considerarsi davvero emancipata. Ad esempio, popolarsi di personaggi neri che esistano in quanto persone normali, imperfette e non definite dal colore della loro pelle. Luther e Bridgerton ci hanno già provato.