il cavaliere del secchio Kafka

“Il cavaliere del secchio” di Kafka: una realtà troppo vicina o lontana

Lo scrittore di Praga, oltre alle sue opere, ha lasciato un aggettivo: kafkiano. Le atmosfere evocate nei suoi racconti sono caratteristiche al punto da far diventare il suo nome ciò che le identifica; kafkiano è un qualcosa di inquieto, angoscioso, una situazione paradossale che tende all’assurdo. Un autore quindi che si muove tra il grottesco e l’onirico, un esistenzialista.

L’opera dello scrittore boemo è una di quelle più discusse di tutto il Novecento; in Italia, a causa della difficile vicenda editoriale aggiunta al ritardo dei traduttori, se ne è iniziato a parlare soltanto dalla metà dello scorso secolo. Eppure, se non fosse stato per Max Brod, amico intimo dello scrittore, Kafka avrebbe distrutto la maggior parte delle sue opere. Brod, anche lui nato a Praga, fuggì in Palestina nel 1939 portando con sé le opere dell’amico già morto: divenne redattore e curatore della sua intera produzione, dando inoltre origine alla teoria di Kafka come scrittore “religioso”.

Quella di Kafka è una produzione molto ampia, ma i titoli che vengono più spesso ricordati e discussi sono Il processo, Il castello e America, i suoi tre romanzi, e il suo racconto più noto: La metamorfosi. Oltre a questi ci sono diverse raccolte di racconti che andrebbero sicuramente lette, ma uno nello specifico è degno di nota.

Il cavaliere del secchioin tedesco Der Kübelreiter – è un racconto di Franz Kafka scritto nel 1917, ambientato nell’inverno bellico dello stesso anno. Il racconto avrebbe dovuto far parte della raccolta Un medico di campagnaEin Landarzt – ma Kafka decise poi di non inserirlo e apparve per la prima volta sulla «Prager Presse», nel supplemento natalizio del 1921, per poi essere pubblicato postumo nella raccolta Durante la costruzione della muraglia cinese Beim Bau der Chinesischen Mauer.

Il cavaliere del secchio è un breve racconto scritto in prima persona e l’apertura lascia immaginare tutto meno che qualcosa di irreale, l’inverno del ’17 è stato il più duro per l’impero austriaco e uno dei fattori che contribuì alla sua disfatta fu la mancanza del carbone.

Consumato tutto il carbone; vuoto il secchio; inutile la pala; la stufa che respira aria gelida; la stanza gonfia di gelo; davanti alla finestra, gli alberi rigidi nella brina; il cielo, uno scudo d’argento contro chi cerca da lui un aiuto. Devo procurarmi del carbone; non posso certo morire congelato.

Così si apre il racconto: è freddo, è inverno, serve del carbone. L’uomo non ha un soldo e sa bene che dovrà dimostrare al carbonaio di averne veramente bisogno, un suo rifiuto potrebbe ucciderlo. Il cavaliere con la mano sull’impugnatura del secchio scende le scale, ma il secchio, improvvisamente, inizia ad elevarsi.

I cammelli sdraiati bassi per terra, quando il bastone del padrone li incita, non si sollevano con maggiore eleganza.

A bordo del secchio, il cavaliere sorvola le strade di gelo e arriva alla cantina del carbonaio. Lo vede rannicchiato su un tavolino intento a scrivere: lui, per il troppo calore, ha aperto la porta. Il cavaliere grida e chiede un po’ di carbone, appena potrà glielo pagherà, dice.

Il carbonaio a terra sente la voce, ma sua moglie non la percepisce e continua a sostenere che fuori non ci sia nessuno e che tutti i clienti siano già stati forniti. L’uomo, che la voce l’aveva sentita, inizia a salire le scale per esaudire il desiderio del vecchio cliente, ma viene bloccato dalla moglie che decide di salire lei stessa per trattare questo “affare immaginario”. La donna ovviamente vede il cavaliere che le dice che avrebbe pagato il carbone a prezzo intero appena avrebbe potuto, ma non subito.

Che suono di campane, nelle due parole “non subito”, e come disorienta il loro mescolarsi con le campane serali che proprio ora cominciano a suonare dal vicino campanile.

La moglie allora usa il suo grembiule per cacciar via il cavaliere. Il secchio, troppo leggero, si lascia trasportare via. Il cavaliere le urla “cattiva!”

E dicendo così salgo nelle regioni delle montagne di ghiaccio e mi perdo per non tornare mai più.

È, quello del Cavaliere del secchio, uno dei racconti più misteriosi di Kafka: il reale si fonde con il fiabesco. Il secchio vuoto, che è privazione, è anche ciò che grazie al suo essere lieve riesce a elevarsi, e rende magico il cammino verso la meta. Un magico che nasce proprio per merito di un oggetto così semplice come un secchio, che si eleva, e rende eroica la missione del cavaliere: dover attraversare distese di gelo per trovare del carbone.

Ma questa altezza si trasforma presto in distanza da coloro che avrebbero potuto aiutare, anche l’egoismo perde la possibilità di provare quel poco di pietà che la richiesta del cavaliere avrebbe potuto smuovere. Si mescolano la lievitazione inaspettata, ma sorprendente e che facilita il viaggio del cavaliere, alla privazione e alla sofferenza di chi si ritrova in pieno inverno senza la possibilità di riscaldarsi.

Il volo, così come accade in altre fiabe, è una risposta al peso di vivere, ma non per questo diventa un modo di evadere totalmente la realtà, bensì rappresenta il rifiuto di una sua visione diretta. Lo scrittore boemo, narra una storia breve ma pungente, adotta una prospettiva diversa, assume un’altra logica e un livello più alto di sensibilità.

Il cavaliere di Kafka, sopra il suo secchio vuoto, dopo non essere riuscito a farsi sentire, dopo esser stato ignorato e, poi, scacciato, se ne va nelle regioni delle montagne di ghiaccio, senza più tornare.


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