Trilogia della città di K. è stato il primo libro dello Sbuffo Book Club. È un’iniziativa promossa dalla sezione di letteratura de «Lo Sbuffo»: ogni mese leggeremo e parleremo di un romanzo di un paese diverso, per scoprire letterature un po’ ai margini del sistema. Per il mese di maggio abbiamo scelto l’Ungheria con Trilogia delle città di K. di Agota Kristof. Il romanzo è composto da tre libri pubblicati separatamente, Il grande quaderno (1986), La prova (1988) e La terza menzogna (1991).
Qualche cenno sulla trama è d’obbligo
Nel Grande quaderno i due gemelli protagonisti della vicenda sono i narratori. Costituiscono un’entità unica e per il momento non hanno un nome. Durante la guerra vengono affidati alla nonna e trascorrono l’infanzia nella città di K., una cittadina fittizia dell’Est Europa. Lì mettono a punto delle tecniche di sopravvivenza. Infatti imparano a sopportare la fame, il dolore fisico e psicologico e a dimostrarsi imperturbabili anche di fronte alle parole gentili. Si prendono cura della propria istruzione da autodidatti, facendo esercizi di calcolo e ortografia e scrivendo temi che ricopiano sul grande quaderno.
Quando la madre arriva a prenderli e muore uccisa da una granata in giardino, la seppelliscono senza troppi rimpianti. Finita la guerra, il padre arriva nella città di K. per attraversare il confine che si trova poco distante. Muore passando sopra una mina e così un gemello, seguendo esattamente i suoi passi, può arrivare dall’altra parte del confine incolume.
Il secondo libro si concentra sul gemello rimasto nella città di K., Lucas, sulla sua giovinezza e maturità. Gli abitanti spesso lo prendono per pazzo perché credono che il fratello di cui parla in continuazione non sia mai esistito. Lucas però scrive tutto quello che gli accade in quaderni che farà leggere al gemello Claus (anagramma di Lucas), quando tornerà.
Claus torna nella città di K., perché è gravemente malato e vuole morire lì, ma solo dopo aver ritrovato il fratello. Alla fine del libro un rapporto di polizia ci avvisa che Claus non è altri se non Lucas.
Nella Terza menzogna si scopre che tutta la storia finora raccontata è falsa. Lucas ha effettivamente un fratello, ma si sono separati quando erano molto piccoli. La madre dei due ha sparato al padre, perché ha scoperto che la tradiva. Un proiettile vagante ha colpito Lucas che è stato ricoverato in un centro di riabilitazione. L’amante del padre invece si è presa cura del fratello Klaus (con differenza nella grafia rispetto al libro precedente), mentre la madre è rimasta a lungo in un ospedale psichiatrico. Lo scopo di Lucas è ritrovare il proprio gemello e la propria famiglia. Da adulto Lucas ritrova Klaus, ma Klaus nega di avere un fratello. Lucas quindi si suicida e viene seppellito nella tomba di famiglia in un atto di pietà.
Un genere non ben definibile
La trilogia non è ascrivibile totalmente a un genere specifico. In parte sfiora il romanzo storico, in quanto è collocata in un tempo definito. Si possono riconoscere la Seconda guerra mondiale, le deportazioni, il regime filosovietico successivo e la rivoluzione ungherese del 1956, ma sono cenni indiretti ad alludere a questi eventi. Il lettore si ritrova catapultato in un’atmosfera vaga e nebulosa, anche se è stato affermato che per un autoctono i luoghi di questo romanzo sono perfettamente riconoscibili. Per molti altri è intuibile una qualsiasi città dell’Est Europa. I riferimenti geografici rimangono poi misteriosi: sono citate la città di K., la città di D. e la città di S.
I tre libri nel loro insieme potrebbero anche essere considerati un Bildungsroman, ovvero un romanzo di formazione, che segue la vita del protagonista dall’infanzia alla morte.
Una scrittura che crea un’atmosfera cruda e surreale
A questo proposito si può considerare l’evoluzione dello stile lungo il corso della trilogia. Nel Grande quaderno la prosa si frantuma, tagliente e acuminata. Compaiono rare descrizioni di solito connesse alle atrocità del contesto bellico e della deprivazione. Principalmente però prevalgono i dialoghi, quasi questo possa contribuire a rappresentare la realtà senza nemmeno il filtro della verbalizzazione narrativa. In seguito, con la crescita dei personaggi, lo stile si complica con brevi incursioni nell’interiorità, sezioni narrative e descrittive più estese. L’ultima parte è caratterizzata da una fusione tra le due modalità di scrittura, arricchito anche da analessi.
Manganelli ha definito la scrittura dell’autrice “una prosa di perfetta, innaturale secchezza, una prosa che ha l’andatura di una marionetta omicida”. Così Agota Kristof costruisce l’ambientazione cruda e surreale per una storia che in certi momenti ha l’aria di una fiaba tremenda. All’inizio nessun personaggio ha un nome: ci sono Nonna, Nostra Madre, Labbro Leporino. È un’altra realtà a cui finiamo per credere, benché sia una finzione prodotta dalla forza immaginativa di Lucas fin da bambino. È un ragazzino affetto da una disabilità fisica non ben specificata, era stato colpito dal proiettile alla colonna vertebrale. A volte manifesta una certa crudeltà gratuita che nella sua fantasia trasforma in spirito vendicativo.
Infatti nel primo libro è come se i gemelli si creassero una propria etica che talvolta può farli sembrare giustizieri o salvatori. Ciononostante possono arrivare a compiere azioni terribili quando la loro sopravvivenza e messa a rischio e non solo: uno dei loro “esercizi di sopravvivenza” è l’esercizio di crudeltà. Invece condannano la malvagità gratuita altrui. Ad esempio fanno esplodere la stufa in faccia alla fantesca del parroco che ha mostrato un pezzo di pane a un deportato, ritraendo subito dopo la mano. D’altra parte, Lucas al Centro compie azioni malvagie solo per il gusto di farlo o per una strana forma di giustizia nei confronti dei bambini più fortunati di lui.
Una poetica del “vero” in un metaromanzo
In ogni caso fin da piccolo Luca si aliena e fugge dalla propria realtà inospitale. Ma che cos’è la realtà, che cos’è verità e finzione in questo romanzo? I due gemelli quando scrivono sul Grande Quaderno formulano quasi una dichiarazione d’intenti al riguardo:
Per decidere se è Bene o Non Bene, abbiamo una regola molto semplice: il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo.
Ad esempio, è proibito scrivere: «La gente chiama Nonna la Strega». È proibito scrivere: «La Piccola Città è bella», perché la Piccola Città può essere bella per noi e brutta per qualcun altro. Allo stesso modo, se scriviamo: «L’attendente è gentile», non è una verità, perché l’attendente può essere capace di cattiverie che noi ignoriamo. Quindi scriveremo semplicemente: «L’attendente ci regala delle coperte».
Scriveremo «Noi mangiamo molte noci» e non: «Noi amiamo lo noci», perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività.
Chiaramente contrasta con l’intera trilogia, che è per gran parte un metaromanzo. Nulla però ci spinge a fidarci con certezza dello scioglimento che viene affidato allo stesso mezzo narrativo con cui siamo stati appena ingannati. C’è un’unica sottile differenza, ma non sufficiente: la vera identità di Claus alla fine del secondo libro viene svelata attraverso un verbale di polizia.
L’autrice
Agota Kristof nasce in Ungheria nel 1935. Lì trascorre un’infanzia tutto sommato felice, nonostante la guerra, a cui poi si ispira per il primo libro. Nel 1956 è costretta a scappare a seguito della rivoluzione ungherese. Si stabilisce in Svizzera con il marito e la figlia di un anno. Inizia a tenere un diario e lavora in fabbrica, quello è per lei il periodo più buio della sua vita. Appena emigrata, l’autrice considera la differenza linguistica uno degli scogli più insormontabili. Non aveva mai pensato prima che fosse possibile giungere a una tale incomunicabilità. Eppure riesce a scrivere la Trilogia delle città di K. proprio in francese.
FONTI
Agota Kristof, Trilogia della città di K., Einaudi, 2014