Si è discusso e dibattuto su questa possibilità, che i videogiochi violenti abbiano un’influenza depravante su chi ne fa uso. Ma le indagini a riguardo hanno alternativamente smentito e confermato questa teoria, restituendo un insieme di fotografie discordanti che risulta inevitabilmente confuso: per citare il giornale di psicologia «State of Mind», “le variabili interagiscono fra loro in modi che ancora non comprendiamo”. E così, nel sostenere un’argomentazione, chiunque può appellarsi a questa o a quella ricerca per sostenere la posizione che più gradisce: l’accanito giocatore parrà avere tutte le ragioni nel difendere la sua abitudine a passare il pomeriggio davanti alla console, ma altrettanto ragionevoli saranno le preoccupazioni della madre esasperata. In una simile anarchia di dati, vale la pena di assumere un punto di vista complessivo per cercare quantomeno di comprendere il problema.
Gioco e realtà
In primis, per esaminare il rapporto tra la violenza nei videogiochi e la violenza nella realtà, occorre prendere coscienza del rapporto tra videogiochi in sé e realtà in sé; o ancora, facendo un altro passo indietro, occorre chiarire il tipo di rapporto che sussiste tra gioco e realtà.
Questi due orizzonti, in genere, sono percepiti come nettamente separati: il gioco è un dimensione isolata dal mondo reale, uno spazio privo di conseguenze e responsabilità; è finzione, e proprio in quanto tale si contrappone alla realtà. Si tende però a dimenticare che la categoria del “finto” non può essere sceverata tout court da quella del “reale”. Anzi, fingere significa imitare, e quindi prendere le mosse dalla realtà: due bambini che si rincorrono impersonando guardia e ladro non sono, evidentemente, una vera guardia e un vero ladro, ma la situazione che stanno simulando, la situazione dell’inseguimento, è attinta in modo esplicito dal mondo reale.
Quello tra gioco e realtà è un rapporto diretto, direttissimo, e se risulta sempre verificato in un senso (il gioco influenzato dalla realtà) non c’è certezza che non possa esserlo anche nell’altro (la realtà influenzata dal gioco).
La violenza della verosimiglianza
Eppure, i timori sono rivolti non tanto all’universo dei giochi in generale, bensì al sottoinsieme specifico dei videogiochi. Il motivo è evidente: la tecnologia di cui si serve un videogioco garantisce una simulazione verosimile, accurata, che lascia poco alla fantasia; nel caso della presenza di elementi come armi e sangue, questa accuratezza può sfociare in una riproduzione cruda e trasparente di scenari anche disturbanti.
Che cosa distingue, ad esempio, una partita a Call of Duty da una partita a scacchi? Entrambi si rifanno alla stessa situazione sostanziale: la guerra. Lo scarto, naturalmente, consiste nel grado di approssimazione con cui ognuno di questi due giochi simula un contesto bellico. Una scacchiera è una versione talmente stilizzata, “depurata”, di un campo di battaglia che durante il gioco si tende a dimenticare che le pedine rappresentino in effetti cavalieri e fanti; la partita diventa più che altro un’astrazione logica, distante dalla concretezza della realtà.
Cattiva influenza o valvola di sfogo?
Ma quali sarebbero le tanto temute conseguenze negative? La prima paura è anche la più spontanea, e riguarda in particolare quei giochi il cui protagonista è un fuorilegge, o comunque un individuo dalla moralità dubbia. È il caso della serie di GTA (Grand Theft Auto), in cui al giocatore è offerta la possibilità di calarsi nei panni di un criminale e darsi pressoché a ogni tipo di azione illecita, dal furto al massacro.
D’altronde, non è insensato immaginare che la possibilità di fare qualsiasi cosa in una realtà virtuale, in una realtà alternativa, contribuisca al consumarsi di eventuali istinti violenti in uno spazio senza conseguenze. È forse proprio questo meccanismo a determinare il successo dei giochi più sanguinari, o in generale di quelli che garantiscono al giocatore un “open world” (mondo aperto) in cui egli sia libero di scorrazzare a suo piacimento.
Il “Gaming Disorder”
Certo è che i videogiochi, come tutte le fonti di piacere (cibo, sesso, alcool, ecc.), sono in grado di provocare dipendenza. Si parla di un vero e proprio “Gaming Disorder”, identificato dall’OMS come una perdita di controllo sul tempo passato a giocare. La persistenza dell’attività di gaming arriva talvolta a mettere a repentaglio una relazione importante oppure un’opportunità di carriera. E questo atteggiamento antisociale può persino non essere l’ultima frontiera: l’American Psychological Association ha evidenziato un rapporto triangolare tra il ridursi dei rapporti sociali da “Gaming Disorder”, il venir meno di facoltà empatiche e l’inasprirsi di un comportamento aggressivo.
La normalizzazione della violenza
La notizia di una strage in piazza, ad esempio, non susciterà più il sano allarme che ci si aspetterebbe, bensì qualcosa di più vicino all’indifferenza. Ad essere imputati, in questo caso, sarebbero non solo i videogiochi a tema “criminale”, ma tutti i titoli legati a sangue e armi; non solo i videogiochi, in effetti, ma qualsiasi medium visivo che sia portavoce di violenza esplicita: tutto il cinema da Scarface a Fight Club, da Kill Bill a Drive. Anche se i videogiochi, presupponendo una partecipazione interattiva da parte del fruitore, rimarrebbero comunque in cima alla classifica di “nocività”.
Il gusto per la violenza
Ma si torni a considerare la migliore delle ipotesi. Quella che i videogiochi, in quanto “valvole di sfogo”, non solo non siano nocivi, ma siano invece benefici, tanto per il singolo quanto per la società. Si provi ad assumere per vera questa congettura, si provi a crederle. Che cosa ci lascia, in fondo, una simile prospettiva? Non si può sopprimere una certa inquietudine. Se dietro all’esigenza di fruire di un videogioco violento c’è l’esigenza di sfogare violenza, allora è incontestabile che sia vivo e palpitante, nel giocatore, l’impulso alla violenza.
Sarebbe semplicistico supporre che un individuo che si diverte a investire passanti durante una partita a GTA, una volta spenta la console, voglia mettersi a fare lo stesso al volante della sua auto reale. Ma proprio il desiderio di divertirsi in questo modo la dice lunga, su ciò che si annida dietro a tutte le implicazioni etiche e legali della vita quotidiana.
A distinguere il gioco dalla realtà sono infatti le implicazioni, le conseguenze del proprio agire: il gioco non prevede conseguenze reali, e quindi il giocatore può agire come più gli gusta. La scelta di esercitare violenza in una simulazione, pertanto, non può che essere spia di un autentico gusto per la violenza. E questa verità dovrebbe perlomeno metterci in guardia.